Gazzetta di Reggio

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La storia e il mito delle Reggiane racchiusi nei treni di via Talami

Martina Riccò
La storia e il mito delle Reggiane racchiusi nei treni di via Talami

Reggio Emilia, l’appello di Alberto Sgarbi, storico e segretario della Safre: «Realizziamo qui un museo, salviamo le nostre radici»

28 dicembre 2020
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REGGIO EMILIA. Un tesoro nascosto, sconosciuto ai più, essenza ed emblema della Reggio che fu, quella che da terra contadina seppe trasformarsi in città industriale, punto di riferimento per l’Italia intera e non solo. Parliamo del deposito dei treni di via Talami, nell’area delle ex Reggiane, a due passi dal muro di viale Ramazzini che è stato abbattuto pochi giorni fa. A farci da guida in mezzo a locomotive e vagoni storici è Alberto Sgarbi, segretario del Safre - Sodalizio Amici Ferrovie Reggiane, che ha un sogno nel cassetto: «Trasformare il deposito di via Talami nel museo dei treni e delle ferrovie reggiane».

Il progetto c’è già: realizzare un centro di recupero della memoria, affiancarlo a un museo di modellismo, portare qui la cultura ferroviaria e del trasporto, raccontare le origini delle Officine Reggiane. «Se non si conosce il passato – dice Sgarbi – non si può certo capire il presente. E il passato serve a leggere anche il futuro». Ecco perché, ad accogliere i visitatori, potrebbero essere la prima e l’ultima locomotiva prodotte dalle Reggiane, una del 1911 e l’altra del 1988.

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L’ORIGINE: LA FERROVIA. «Questa fabbrica – racconta Sgarbi – è diventata famosa per gli aerei ma è nata per costruire treni su impulso del cavaliere Giuseppe Menada, presidente della SAFRE (Società Anonima delle Ferrovie di Reggio Emilia, che gestiva le linee Sassuolo-Guastalla e Bagnolo-Carpi) che disse: “A Reggio abbiamo bisogno dell’industria meccanica”». Menada, nato ad Alessandria, arrivò a Reggio intorno al 1870 per la costruzione delle ferrovie: «Era l’emissario della banca subalpina di Torino – spiega Sgarbi – che aveva progettato questa nuova modalità di comunicazione e trasporto. Quando le ferrovie ebbero una espansione, Menada si accorse che c’era bisogno di manodopera specializzata per la manutenzione. “Piuttosto che farla fare altrove”, disse, “facciamola a Reggio”. Così nel 1904, con bando di 50mila lire della Cassa di Risparmio, si cercò chi impiantasse uno stabilimento industriale». I partecipanti furono due: la fabbrica di spazzole Agazzani e la Fonderia Righi di Modena che diventerà poi le Reggiane.

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NEL DEPOSITO. Quando si arriva al deposito di via Talami, una parallela di via Veneri, si notano subito due edifici in mattoni faccia a vista. «Erano la sede della Società Esportazione Agricola – spiega Sgarbi – risalgono al 1910». Abbandonati e pericolanti, hanno arbusti e alberi che escono dalle finestre e dal tetto. Un tempo erano la casa e lo spogliatoio degli operai che riparavano i carri con le botti. «Un’altra idea di Menada – racconta Sgarbi, che lì vorrebbe portare parte del museo – che aveva attivato un sistema di trasporto di mosti e vini in tutta Italia».

La strada è indicata da binari in disuso, tra le traverse crescono erbacce. Sgarbi indica dei vagoni che sembrano essere usciti da un film: «Ecco – dice – questi risalgono agli anni Trenta. Li abbiamo recuperati a Milano. Le lamiere venivano unite con rivetti di ferro rovente, che poi venivano ribattuti. Ante-saldatura». Tettuccio arrotondato e spiovente, predelle in legno, i vagoni sono perfettamente conservati. All’interno si trovano divanetti in legno che fanno pensare a cappellini, maniche a sbuffo, colletti e gonne fluide.

Immobile e imponente, proprio di fronte è parcheggiata la locomotiva CCFR 7, «ancora funzionante». La sigla sta per Consorzio Cooperativo Ferrovie Reggiane, la azienda che subentrò alla Safre di Menada nel ’36, ma la macchina risale al 1909, anno in cui le Reggiane iniziarono la costruzione della prima serie di locomotive a vapore. «Ma essendo l’azienda troppo “giovane” – spiega Sgarbi – non vi era ancora la capacità per progettare in proprio i mezzi. La prime serie di quattro locomotive fu pertanto costruita a partire dai disegni di un modello di locomotiva a tre assi che la Safre aveva acquistato dalla tedesca Henschel nel 1907».

Quello che si trova nel deposito di via Talami è un esemplare del modello Henschel originale, ma una macchina della prima serie delle Reggiane (la Ccfr 8) è esposta al Museo Volandia, vicino a Malpensa. «È la locomotiva che si trovava in viale Umberto I», ricorda Sgarbi, «amatissima da tutti i reggiani». A meno di un metro si trova un’altra locomotiva, a diesel, bombata. «È arrivata qui negli anni ’80 – racconta Sgarbi – è stata acquistata usata in Germania perché all’Act serviva una macchina potente per lo scalo di Dinazzano, dove si trasportava argilla. Questa è il modello V160 numero uno.

È la capostipite di una serie di macchine diffusissime in Germania, la prima di una serie di dieci prototipi. Le stanno dando la caccia ma la teniamo noi», ride. In fondo al capannone si trovano due carrozze del servizio postale di inizio Novecento e un carro dell’Ottocento. «Vede quella torretta? – indica Sgarbi – Lì dentro ci stavano gli omarini che conoscevano il codice dei fischi e quando si arrivava alla fermata iniziavano a girare la ruota per far fermare il mezzo». L’ultima locomotiva costruita dalle Officine Reggiane, invece, si trova a Foligno. «Si tratta di una macchina elettrica del 1988 – spiega Sgarbi – la prima locomotiva italiana ad essere progettata per superare la barriera dei 200 chilometri orari. Doveva essere demolita, siamo riusciti a impedirlo».

Se e quando verrà realizzato il museo, storie come queste – e anche più belle – potranno essere raccontate. Storie di un tempo lontano, da cui però proveniamo: «Eravamo contadini – conclude Sgarbi – siamo diventati la massima espressione del progresso e della tecnologia di allora. Grazie alle ferrovie e ai treni. Questi».