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La coppia Bottura e Iacoviello prende il Giappone per la gola

La coppia Bottura e Iacoviello prende il Giappone per la gola

Viaggio alla Gucci Osteria di Tokyo dove la nostra cucina incontra l’Oriente. Piatti italiani con prodotti locali, tecniche tradizionali e sapori sorprendenti

05 giugno 2023
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Cosa significa cucinare all’italiana in Giappone, una terra con cucina, tecniche e gusti propri, sofisticati e variegati ma anche lontani dai nostri? È stata questa la scommessa di Massimo Bottura quando due anni fa ha aperto Gucci osteria a Tokyo, dopo Firenze e Los Angeles. A dirigere il progetto lo chef di via Stella ha mandato Antonio Iacoviello dello staff della Osteria Francescana, allora promessa della ristorazione italiana e oggi chef già stellato. Lo spirito non doveva essere né competitivo né integrativo, bensì una cucina italiana con prodotti locali. Niente localino “spaghetti e mandolino” con fiasco impagliato e altre amenità; neppure contemporaneità stellata da esibire. Osteria Gucci si trova a Ginza, agglomerato di palazzi e grattacieli dell’alta moda e del lusso con un passaggio giornaliero di decine se non centinaia di migliaia di persone. È in una palazzina tutta verde sia fuori che dentro e oggi, dopo la stella Michelin assegnata in gennaio, è un punto di riferimento per i giapponesi. Siamo andati a cena con forte curiosità, considerando il rischio elevato di trovarci di fronte a piatti poco convincenti. E invece, è stato un festival di sapori e accostamenti originali e spesso unici. Il menù stile “omakase” – ovvero lasciare carta bianca allo chef su piatti e assaggi – riflette i valori di Iacoviello, chef dalle intuizioni vulcaniche ma dai risultati precisi, quasi geometrici. La filosofia del locale è spiegata alla consegna del pannicello caldo come da tradizione nipponica a tavola.

«Il nostro menù è focalizzato su tre elementi – spiega maître Masashi Yamashita, tornato in patria dopo vent’anni nei ristoranti del Nord Italia – il riferimento di Gucci Osteria resta la cucina tradizionale italiana. La guardiamo attraverso ingredienti solo giapponesi. E non dividiamo l’anno in quattro stagioni ma in 72 periodi, ognuno con i suoi prodotti». Antipasto: preceduto da lunghissimi e sottili grissini fatti in casa con farina da polenta, l’aperitivo arriva in un bicchierino piccolo di “Aperol spritz con patatina”. La presentazione è sorprendente: «Una patatina finissima fatta ad alveare, con spritz misto a un cucchiaio di brodo di pollame e un cucchiaino di sorbetto con arancia e Aperol. L’effetto è quasi identico al momento in cui si mangia l’ultima patatina prima del sorso finale”. Tra i piccoli antipasti, l’essenza è racchiusa in un cracker con farina di riso e nocciole tritate che contiene i fegatini di pollo alla toscana. Di accompagnamento, vino bianco giapponese Kushu.

Ribadisce subito dopo lo chef Antonio Iacoviello, napoletano nell’animo, cresciuto nel resto d’Italia e con uno sguardo internazionale: «Noi facciamo cucina italiana osservandola dal Giappone e preparandola coi i suoi prodotti locali. Non è un confronto tra Italia e Giappone. Prendiamo piatti italiani e li combiniamo alla giapponese usando solo i nostri prodotti essenziali come Parmigiano, olio di oliva Evo, prosciutto e poco altro. Massimo mi ha mandato qui con una raccomandazione: “Dovrai usare il 70% dei prodotti locali. Dopo un anno usavo già il 94%», aggiunge ridendo.

Come si fanno a scovare i prodotti locali migliori in una megalopoli come Tokyo?

«Vivo vicino al mercato nuovo del pesce a Toyosu. Tutte le mattine giro il mercato, osservo, assaggio e collego alla mia tradizione italiana».

Una grande esperienza per uno chef, anzi: forse oggi la massima.

«È un sogno. Questa è la Champions League della cucina. Tokyo oggi è la città più importate al mondo. Per il food, la grande forza di Tokyo è il numero sterminato di locali e localini. È la cosa più bella, ti dà la carica ogni giorno per fare cose nuove».

Dopo altri assaggi, arriva una golosità da street food nipponico: l’Ayu, pesciolino bianco di fiume. Spiega chef Iacoviello: «In Giappone vanno pazzi per l’Ayu (che è la passione anche di Massimo) . Viene cotto per due ore sulle braci, è croccante e si mangia tutto, dalla testa alla coda. Lo abbiamo riproposto con salsa di patate e lardo». E poi vai con la Romagna. «L’idea era di fare la piada con squacquerone e rucola. Qui non c’è il nostro prosciutto ma loro amano l’abalone, una conchiglia pregiata che amano stagionare». Ancora una volta un effetto sorprendente, una deviazione nuova da un sapore “di casa”».

Si prosegue con i crostacei. «Mia nonna amava il pesce alla pizzaiola. Ho perciò cotto l’astice sui carboni con menta e origano essiccato, preparato una salsa alla pizzaiola, fagioli alla mandorla e un fumetto di teste di crostacei. Ricordando la nonna che faceva le cozze ripiene, con la testa facciamo una farcitura di pane e pezzi di astice da mangiare col cucchiaio». Piatto golosissimo. Lo chef porta uno dei piatti preferiti da Bottura: «Animella, una parte ingiustamente ritenuta poco nobile, cotta nel succo di mela Aomori, con caviale e sopra una crema di mais». L’animella è accompagnata da un saké speciale, combinazione perfetta. E la crema di mais che resta? Si fa la scarpetta col bambù cotto e poi fritto con frutti di bosco essiccati, soluzione ingegnosa.

Iacoviello, che rapporto ha con Bottura, tanto lontano?

«Massimo mi lascia libertà di provare e creare. Io oso, lui mi ama ma alla fine devo dargli soddisfazione. L’importante è il riscontro. Ho lavorato alla Francescana quattro anni e mezzo, so come si lavora con lui. Quando in gennaio ho preso la stella Michelin, Massimo mi ha chiamato: “Allora, sei felice? ” È stato un momento importante, ma poi ho pensato al servizio successivo».

Chi è lo chef Iacoviello?

«Vengo da una famiglia povera di Napoli. Da noi c’era fame. Mio padre è rimasto per molti anni allettato in ospedale, sono cresciuto coi nonni. Dopo la scuola alberghiera, sono andato via e ho girato l’Italia. La cucina mi ha salvato. La mia malattia è cucinare».

Dopo alcuni piatti, tra i quali un risotto dedicato alla madre di Marco Bizzarri, ad di Gucci, e amico di infanzia di Bottura, arriva un piatto a base di cervo.

«Nell’Hokkaido, ci sono 70mila capi di cervo che oggi costituiscono un problema dato che distruggono le colture. Dagli abbattimenti programmati, ci procuriamo carne di cervo estivo giovane. Viene frollata e affumicata per due giorni. È solo scottata sui carboni. Prepariamo il filetto con una salsa di fondo di calamari tostati in forno e cotti in brodo». Un sincretismo ad altissimo rischio, mescolare selvaggina e molluschi. Il risultato è invece stupefacente.

Dove sono finite le bacchette?

«Qui non ci sono. Usiamo le posate. Gli ospiti si adeguano».

Come è nata l’esperienza del Giappone?

«Lavoravo da Gucci Firenze e mi volevo mettere alla prova. Mi chiamano in Francescana, vado a Modena, Massimo mi mette al laboratorio per preparare i pasti allo staff con tutto quello che trovavo. Passa una settimana e mi chiama di nuovo. Mi chiede se voglio fare lo chef a Tokyo. Raccomandandosi di ricordare sempre le radici, di evitare l’esotismo e il pittoresco. Era arrivata l’occasione. Sono rimasto in Francescana un anno a fare di tutto, ma ho avuto il coraggio di dirlo a mia moglie solo dopo due mesi».

«Arrivo a Tokyo. Massimo mi telefona e mi dice di creare un piatto che sa di Giappone. Ma non sapevo niente di questa terra. Mio padre amava la parmigiana di casa e gli spaghetti col peperoncino. Ho unito i due piatti e ho creato il patto simbolo di questo locale: “La parmigiana che vuole diventare un ramen”. A Massimo è piaciuto così tanto che mi ha detto che se lo cambio viene qui e mi taglia la testa. Fa impazzire i giapponesi. Ieri sera ho reso felice un campione di sumo».l

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