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L’intervista

«Prima regola: lo smartphone non va regalato troppo presto»

Martina Trivigno
«Prima regola: lo smartphone non va regalato troppo presto»

Lo dice lo psicoterapeuta Giuseppe Lavenia: «I genitori devono dare il buon esempio, perché non si può chiedere a un figlio di disconnettersi se noi siamo sempre con lo sguardo sullo schermo»

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«Quando uno strumento pensato per adulti finisce troppo presto nelle mani di un bambino, quello che dovrebbe essere un mezzo si trasforma in un fine. Uno smartphone non è un gioco, ma un acceleratore di solitudine, se usato senza filtro, senza presenza adulta». A dirlo è Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta, docente universitario, presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze tecnologiche e Cyberbullismo.

Dottore, si abbassa sempre di più l’età in cui i nostri bambini utilizzano lo smartphone: con quali conseguenze?
«I bambini, che avrebbero bisogno di muoversi, esplorare con le mani e con il corpo, iniziano a vivere seduti davanti a uno schermo che stimola il cervello ma disattiva la vita reale. Le conseguenze? Calo dell’attenzione, fatica nella regolazione emotiva, irritabilità, difficoltà nei rapporti sociali e un progressivo impoverimento della fantasia. Il cervello di un bambino non è pronto a sostenere la velocità, l’iperstimolazione e la disconnessione relazionale che lo smartphone inevitabilmente porta con sé». Possiamo quindi parlare di vera e propria dipendenza da smartphone tra i giovanissimi e i giovani?
«Sì, e non possiamo più far finta di nulla. Sempre più giovani non riescono a separarsi dal telefono nemmeno per pochi minuti. Non perché siano pigri o superficiali, ma perché lo smartphone è diventato una sorta di protesi emotiva: lo accendono per non sentire il vuoto, per non pensare, per non ascoltarsi. È una fuga, non un passatempo. Gli effetti si vedono: calo dell’autostima, ansia sociale, difficoltà a dormire, ritiro relazionale. E poi l’incapacità di tollerare la frustrazione, di attendere, di desiderare. La vera emergenza non è tecnologica, è emotiva: stiamo crescendo ragazzi sempre connessi e sempre più soli».
La Cina ha fatto sapere che entro settembre 2025 introdurrà lezioni obbligatorie di intelligenza artificiale in tutte le scuole primarie e secondarie: secondo lei è più un pericolo o un’opportunità?
«Se l’obiettivo è costruire cittadini consapevoli, allora l’intelligenza artificiale può essere una grande alleata. Ma se diventa un altro strumento per formare menti veloci ma non critiche, allora è un pericolo silenzioso. I bambini e i ragazzi devono comprendere come funziona l’AI, ma anche perché funziona così. Devono imparare a distinguere ciò che è umano da ciò che è algoritmo».
Si spieghi meglio.
«Per questo ho lanciato una petizione nazionale sulla piattaforma Change.org per chiedere una legge che protegga il volto, la voce e l’identità digitale di ogni cittadino italiano: non possiamo permettere che l’intelligenza artificiale venga usata per manipolare, imitare o sostituire l’essere umano senza alcuna tutela. L’intelligenza artificiale non va demonizzata, ma neppure idolatrata. È come un coltello: può tagliare il pane o ferire. Sta a noi decidere cosa farci».

 


La rete è uno strumento prezioso, ma per i più piccoli, se non ben monitorati, può essere anche un grande pericolo: sono in aumento i fenomeni di cyberbullismo?
«Sì, e sta cambiando forma. Non è più solo l’insulto o la presa in giro: è l’isolamento, la diffusione di contenuti privati, la manipolazione psicologica, il branco che guarda e tace. I ragazzi oggi vivono in un’arena digitale dove tutto è visibile, commentabile, replicabile. E il dolore diventa virale. Il problema è che la rete non ha filtri emotivi: un clic può ferire più di una parola detta in faccia. E i più piccoli non hanno ancora gli strumenti per difendersi, per chiedere aiuto, per capire che non è colpa loro. Per questo non possiamo lasciarli soli: serve una presenza educativa, reale, costante».
Quali sono le buone pratiche da attuare nella gestione dell’uso dello smartphone?
«Non serve essere perfetti, serve esserci. Prima regola: lo smartphone non va regalato troppo presto. Aspettare è un atto d’amore, non di punizione. Poi: niente telefoni a tavola, di notte o come babysitter. I genitori devono dare il buon esempio, perché non si può chiedere a un figlio di disconnettersi se noi siamo sempre con lo sguardo sullo schermo. Parlate con i vostri figli, chiedete cosa guardano, con chi parlano, cosa li spaventa online. Non vietate: accompagnate. L’educazione digitale è come imparare a nuotare. Prima si inizia con i braccioli, poi con la supervisione, solo dopo si lascia andare».
È corretta secondo lei la decisione di negare del tutto l’uso del telefono a scuola?
«Sì. A scuola si va per imparare, non per notificare. L’apprendimento ha bisogno di attenzione, e l’attenzione ha bisogno di silenzio. Vietare l’uso del telefono non è un atto autoritario, è un gesto educativo. Il telefono può essere utile se usato con criterio, ma a scuola resta un elemento di distrazione troppo potente. E noi abbiamo bisogno di comunità, non di isolamento collettivo».
Cosa significa per lei educare?

«Non significa solo proteggere, ma anche insegnare a cadere. I nostri figli non hanno bisogno di genitori perfetti, ma di adulti veri. Che sappiano dire no, che sappiano ascoltare, che sappiano aspettare. In questa epoca veloce e rumorosa, la sfida è tornare a educare alla lentezza, al pensiero, alla presenza. Perché non c’è app che possa sostituire uno sguardo che accoglie o una parola che consola».l © RIPRODUZIONE RISERVATA