Gazzetta di Reggio

Reggio Emilia, boom di adesioni ai fondi integrativi nel settore privato

di Roberto Fontanili
Reggio Emilia, boom di adesioni ai fondi integrativi nel settore privato

Flop Tfr, nessuno lo vuole in busta paga: solo lo 0,7 per cento dei lavoratori reggiani ne ha fatto richiesta

26 luglio 2015
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REGGIO EMILIA. A Reggio, come nel resto del Paese, le richieste dei lavoratori di inserire il Trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga sono attorno allo zero. O meglio allo 0,7%, stando ai dati diffusi da una ricerca dell’Ordine professionale dei consulenti del lavoro. La nostra provincia invece è ai primi posti, se non al primo in assoluto, per numero di lavoratori del settore privato che hanno aderito ai fondi integrativi, che negli ultimi 10 anni hanno garantito un rendimento del 3.5% annuo.

Nel settore privato la media delle adesioni a Reggio oscilla intorno al 50%, su una forza lavoro di poco più di 100mila addetti, rispetto al 28-30% della media nazionale. Cambia invece la proporzione nel settore pubblico, dove i fondi hanno una vita molto più breve e anche a Reggio la media delle adesioni si avvicina a quella nazionale, ferma sul 7-8%. «Sarà perché la tassazione è molto più sfavorevole e perché i lavoratori considerano il tfr una riserva da utilizzare con cautela. Sta di fatto che chi ha fatto ricorso a questa opzione si conta sulle dita delle mani», sintetizza Matteo Alberini della segreteria provinciale della Camera del lavoro.

Rino Soragni, responsabile per la Cgil dei fondi di previdenza integrativi, conferma «come la scelta di aderire ai fondi integrativi nel settore privato è molto elevata. In particolare tra i metalmeccanici sono 13 mila i lavoratori che hanno aderito, oltre l’80% degli iscritti alla Fiom, mentre nel pubblico sui circa 20 mila lavoratori attivi sono solo 3 mila coloro che hanno fatto questa scelta. Tutti i dati compresi i rendimenti annui, con gli ultimi aggiornamenti che arriveranno a settembre, sono a disposizione dei lavoratori, che possono consultare il sito della Camera del lavoro, dove c’è un’apposita sezione».

Il rendimento del 3.5% dei fondi integrativi dei lavoratori dipendenti è un dato che diverge in molti casi dai risultati dei fondi previdenziali integrativi di altre categorie. E la ragione spiega Soragni sta nel fatto «che i fondi preesistenti delle casse professionali hanno una gestione finanziaria completamente diversa». Quelli dei fondi previdenziali contrattuali dei lavoratori del settore privato, con il datore di lavoro che deve versare una parte della contribuzione che è mediamente 1.20%, sono governati da regole e vincoli rigidissimi rispetto a come possono essere investiti le risorse che possono essere impiegate solo in titoli di stato e in azioni.

«La bassa adesione alla possibilità di spalmare il Tfr in busta paga – conclude Soragni – trova spiegazione anche nella decisione del Governo di aumentare la tassazione. Questo comporta che difficilmente l’Erario potrà incassare i 2 miliardi e 200milioni di euro che aveva ipotizzato di ricavare dalla tassazione del Tfr. Insomma avevano fatto i conti che circa il 40% dei lavoratori del settore privato avrebbero scelto di avere in busta 50euro in più al mese. In realtà mettere il Tfr in busta paga significa pagare il 23% o il 30% di tasse, rispetto al 15% cui sono sottoposti i fondi integrativi, e quei pochi lavoratori che hanno dovuto fare questa scelta si sono resi conto che tra la diminuzione delle detrazioni e degli assegni familiari e l’aumento del ticket e delle rette per l’asilo il vantaggio immediato si riduce a poco o nulla». Governo e Parlamento proprio in questi giorni si stanno occupando dei fondi previdenziali integrativi e la normativa potrebbe cambiare, prevedendo che i fondi possono investire anche in settori come banche e assicurazioni, fino ad ora escluse. Anche perché i milioni di euro gestiti dai circa 900 fondi integrativi esistenti in Italia fanno gola a tanti.

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