Gazzetta di Reggio

Uno Bianca, esposto in Procura: «I Savi erano coperti dai servizi»

Evaristo Sparvieri
Uno Bianca, esposto in Procura: «I Savi erano coperti dai servizi»

Un gruppo di familiari delle vittime firma un documento per riaprire le indagini: «Non fu una semplice banda, erano terroristi che volevano seminare panico»

05 giugno 2023
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«Le istituzioni hanno l’obbligo di fare piena luce su questa terribile vicenda per il sangue versato da tanti cittadini inermi, da poliziotti e da carabinieri, perseguendo complici e mandanti della banda della Uno Bianca, che ha seminato panico e terrore in un’area del nostro Paese, già martoriata da tante stragi terroristiche». Depistaggi, dettagli mai approfonditi, piste abbandonate sul nascere. E, sullo sfondo, l’ombra dei servizi segreti e i misteri della Falange Armata. È quanto contenuto in un esposto depositato da un gruppo di familiari delle vittime della Uno Bianca, la terribile banda capitanata dai fratelli Savi composta per cinque sesti da poliziotti che fra il giugno 1987 e il novembre 1994 seminò terrore in Emilia-Romagna e Marche: 103 azioni criminali, soprattutto rapine a mano armata, con 24 morti e 102 feriti, in una lunghissima scia di sangue su cui l’esposto vuole tornare a fare luce, ipotizzando una strategia stragista e il coinvolgimento di servizi segreti. Per i fatti della Uno Bianca, stanno scontando l’ergastolo i fratelli Savi, Fabio e i poliziotti Alberto e Roberto, insieme al collega Marino Occhipinti. Hanno scontato invece le proprie pene Pietro Gugliotta (18 anni) e Luca Vallicelli (tre anni e otto mesi), componenti minori del gruppo.

L’esposto – 250 pagine firmate da una decina di familiari delle vittime, fra i quali non c’è la presidente dell’associazione Rosanna Zecchi – è stato depositato dall’avvocato Alessandro Gamberini alla Procura di Bologna, alla Procura nazionale antiterrorismo e, per conoscenza, a quella di Reggio Calabria, che ha indagato sulla Falange armata, tornata d’attualità nel recente processo ’Ndrangheta Stragista.

Punti oscuri. Circostanze note e inedite messe insieme in una luce nuova, per cercare di dare il via a nuove indagini e dimostrare che, a differenza di quanto sostenuto dai componenti della stessa banda, è sbagliato sostenere che «dietro la Uno bianca c’è soltanto la targa, i fanali e il paraurti», come disse Fabio Savi. Appena tre mesi fa Roberto Savi – dopo aver confessato attentati esplosivi con l’estrema destra negli anni ’70 nel Riminese – ha precisato: «La mia storia personale, risalente agli anni 70, del tutto sconosciuta ai miei coimputati, nulla ha a che vedere con i fatti per i quali sono stato condannato. Gli stessi non rivestono alcuna matrice politica».

Ma secondo l’avvocato Gamberini, «il tempo trascorso non impedisce formalmente lo svolgimento di nuove indagini, quando si tratta di delitti imprescrittibili. Le rende certamente molto più difficoltose, ma l’attuale informatizzazione degli atti processuali le consente ben più agilmente del passato». Nel dettaglio, secondo il legale, gli «interrogativi percorrono alcuni corpi dello Stato, in particolare polizia e carabinieri e i servizi (Sismi e Sisde)», attraverso figure che ebbero ruoli differenti nelle lunghe e tormentate indagini.

«Non si è trattato solo di una banda di rapinatori sanguinari, ma di terroristi, il cui obiettivo era spargere panico nella popolazione – aggiunge Gamberini – il potenziale di violenza omicida delle loro azioni criminali è totalmente sganciato dalla necessità e visibilmente sproporzionato nonché, in molte occasioni, privo di qualsivoglia scopo di lucro. Ciò vale non solo per tutti i crimini commessi tra la fine del 1990 e il 1991: gli assalti omicidi ai campi nomadi e il ferimento e l’uccisione di cittadini extracomunitari del dicembre 1990 non avevano neanche pretestuosamente quella cifra, come non l’aveva la strage dei carabinieri del Pilastro, né l’aveva avuta il 20 aprile 1988 l’omicidio dei carabinieri a Castel Maggiore». Nell’esposto si parla di depistaggi organizzati «con visibili appoggi esterni» per «rompere il tessuto politico sociale della regione»: un’azione che portò a 58 condanne di persone che – durante i processi ai Savi – si rivelarono poi innocenti. Depistaggi che iniziano sin dai tempi della banda della Regata, come veniva chiamata la banda all’inizio, quando per le rapine ai caselli usava una Regata di Alberto Savi. Ci fu una confessione poi ritrattata, per bocca di un personaggio di nome Giordano Donati, che si assumerà le responsabilità di crimini mai commessi insieme a due complici che hanno sempre negato. E poi le rivelazioni di Annamaria Fontana, che portò all’arresto di una banda di pregiudicati catanesi per gli assalti ai supermercati Coop. «Tutto ciò non è mai stato approfondito e costei non è mai stata chiamata a rispondere delle calunnie commesse: c’è da chiedersi se qualcuno ha temuto che rivelasse i suoi ispiratori», ricorda l’avvocato Gamberini, che ventila anche l’ombra di ambienti massonici.

Il depistaggio sugli omicidi dei carabinieri Cataldo Stasi e Umberto Erriu del 20 aprile 1988 introduce ulteriori elementi. Per il legale, non solo non fu approfondita la soffiata dell’informatore Paolo Steriti, che aveva indicato un’auto sospetta all’epoca appartenente a Fabio Savi («la confidenza di Steriti fu liquidata come un depistaggio»), ma si concentra soprattutto sulla figura dell’ex brigadiere Domenico Macauda, autore di un clamoroso depistaggio intervenendo su un bossolo, per il quale l’avvocato dei familiari ipotizza un coinvolgimento superiore nelle trame della banda.

Il 6 ottobre 1990 avviene l’omicidio di Primo Zecchi, senza motivazione alcuna, nel corso di una rapina per appropriarsi di un borsello di un tabaccaio. In quella circostanza, fu il Sisde (Servizio segreto civile) a intervenire: «Per il Sisde è buona la pista slava: a uccidere i carabinieri l’antivigilia dell’Epifania sarebbe stato un gruppo di nomadi slavi, trafficanti di armi». Anche la strage del Pilastro del 4 gennaio 1991– nella quale furono trucidati i tre giovani carabinieri Mauro Mitilini, Andrea Moneta, Otello Stefanini – per i firmatari dell’esposto è da chiarire. Non solo per la scomparsa anche qui dei fogli di servizio dei carabinieri. Ma anche per la presenza di uno sconosciuto che consentì di bruciare con una tanica la Uno Bianca usata per quello che viene considerato un vero agguato. Finirono alla sbarra i fratelli Santagata, poi assolti, dopo la confessione dei Savi. «Nell’indagine sugli autori della strage il depistaggio fu attuato con la testimonianza della giovanissima Simonetta Bersani, gestita dai funzionari della Digos bolognese, che poi chiusero la loro carriera ai vertici del Sismi», spiega Gamberini, ricordando un’altra nota del Sisde che accusava «una banda di nomadi».

Dettagli che non furono approfonditi, al pari della segnalazione dei carabinieri di Pesaro del 1991 (che identificarono in Alberto Savi uno degli autori di una rapina a una Coop) e di diversi altri aspetti che in un vorticoso giro di armi, munizioni e perizie orbitarono attorno del duplice omicidio dell’armeria di via Volturno in centro a Bologna, il 2 maggio 1991, quando la banda uccise la titolare Licia Ansaloni e Pietro Capolungo, ex carabiniere, impiegato della stessa armeria. I componenti della banda erano clienti dell’armeria, precedentemente di proprietà del veterinario Lucio Paglia, proprietario anche di un villa in cui c’era un poligono di tiro abusivo. «Nel 1991, all’indomani della strage del Pilastro e del duplice omicidio nell’armeria Volturno, il poligono di Villa Paglia venne completamente smantellato». l

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