L’odissea di Stefano Esposito: «Io, innocente, indagato per 7 anni. È finita, ma sono pieno di cicatrici»
Stefano Esposito, ex parlamentare Pd, racconta la sua vicenda giudiziaria che lo ha visto totalmente prosciolto: «In Italia la Giustizia va riformata»
Sette anni. Oppure, se si preferisce, 2.589 giorni: tanto è durata l’odissea giudiziaria di Stefano Esposito. Cinquantacinquenne, piemontese di natali e di temperamento, ha consacrato la sua vita al servizio delle istituzioni, dapprima come deputato nel 2008 e successivamente in qualità di senatore, senza rifuggire mai dalla complessità dell’impegno amministrativo. Poi, in una giornata di fine autunno del 2017, tutto cambia: quasi per un beffardo gioco del caso, scopre di essere coinvolto nelle spire di “Bigliettopoli”, un’inchiesta condotta dalla magistratura di Torino su un presunto scambio di favori con l’imprenditore torinese Giulio Muttoni. Un nomignolo – “Bigliettopoli” – che, con la sua brutale immediatezza, evoca a priori un sottobosco di malaffare, indipendentemente dalla veridicità delle accuse. Ma qualcosa di provato e certo c’è: a inizio dicembre, l’ex parlamentare ha visto l’archiviazione dei capi d’accusa su richiesta della Procura di Roma.
Esposito, la forma è sostanza, e il nome dell’inchiesta, come troppo spesso accade ultimamente, pare quasi conservi un impianto tutt’altro che garantista.
«È un punto finora non emerso, ma su cui mi trovo in pieno accordo. È un vizio pernicioso delle procure quello di attribuire etichette suggestive, capaci di evocare scenari di colpevolezza ancor prima di effettuare verifiche sostanziali; più che avviso di garanzia, lo chiamerei preavviso di condanna. Ciò ha dato adito a una proliferazione di accuse, prive, tuttavia, di riscontro; un dettaglio che rivela molto del modus operandi con cui l’intera indagine è stata architettata. Peraltro io non ho mai ricevuto questi presunti biglietti».
Ripercorriamo la vicenda giudiziaria. Come è andata?
«Due sono i passaggi fondamentali. Il primo risale al 2 novembre 2017: ricevo una telefonata dall’allora assessore all’ambiente di Torino, Enzo Lavolta, membro della giunta Fassino. Con tono casuale, mi chiede quale fosse l’avvocato da me nominato per una vicenda giudiziaria di turbativa d’asta. Rimasi interdetto, perché non avevo nominato alcun legale né ero a conoscenza di accuse pendenti».
Non era solo quello il reato imputatole, però.
«E questo è il secondo step. Il 20 marzo 2018 ricevetti una telefonata da Giulio Muttoni, che per molti sarebbe poi diventato il "grande corruttore". Mi informò che i carabinieri si trovavano a casa e nel suo ufficio, notificandogli un avviso di garanzia per corruzione e traffico di influenze illecite, che sarebbero poi ricadute anche su di me. Fu l’inizio di un circo mediatico-giudiziario: ancor prima che i carabinieri lasciassero i luoghi delle perquisizioni, i giornali già pubblicavano dettagli sull’avviso di garanzia, corredati da stralci di intercettazioni evidentemente filtrati in modo orchestrato».
Parole pesanti.
«Ma ponderate. Basti pensare che il quadro delle imputazioni rimase opaco fino a un altro momento cruciale: il 20 ottobre 2020. Quel giorno fui informato che le indagini erano state ufficialmente chiuse. Solo allora, con qualche giorno di ritardo, ebbi accesso agli atti del procedimento – un dossier di circa 37mila pagine – e a 130 intercettazioni, ricevute poco dopo. Fu un lavoro certosino: ci vollero settimane per leggere e ascoltare tutto, ma fu solo allora che potei confrontarmi realmente con le accuse e le presunte prove».
E?
«Capì che ero stato accusato di aver messo la mia funzione parlamentare al servizio di un privato, stabilmente e in modo illecito. Una imputazione gravissima, basata su condotte in larga parte infondate, come hanno certificato gli stessi Pm di Roma. La mia battaglia si è incentrata fin da subito sulla necessità di un processo basato sul rispetto della legalità. Alla fine, i fatti hanno dimostrato che io e il mio avvocato, Riccardo Peagno, avevamo ragione: abbiamo fatto emergere come questa indagine fosse costellata di irregolarità procedurali».
Si spieghi meglio.
«Non era mai accaduto, nella storia della Repubblica italiana, che un Pubblico ministero e un giudice per le indagini preliminari intercettassero un parlamentare senza il necessario vaglio della Camera di appartenenza, utilizzando poi quelle intercettazioni sia nella richiesta di rinvio a giudizio sia nella sua successiva disposizione. Un precedente inquietante, tant’è che la Corte Costituzionale si è poi pronunciata con una sentenza di straordinaria durezza, che ben descrive la gravità dell’abuso, e cioè che non spettava alle autorità giudiziarie – sia alla Procura che all’Ufficio Gip – disporre, effettuare e utilizzare intercettazioni rivolte nei confronti di un terzo imputato, vale a dire Giulio Muttoni, ma in realtà unicamente preordinate ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare».
L’obiettivo era lei?
«Evidentemente. Dopodiché rimane un tema: dov’era il ministero della Giustizia? Ivan Scalfarotto ha presentato ben quattro interrogazioni parlamentari sulla mia vicenda, evidenziando criticità sulla correttezza dell’operato giudiziario. Eppure, il Guardasigilli, Carlo Nordio, ha continuato a sostenere che tutto fosse regolare, arrivando al paradosso di confermare questa posizione appena qualche mese prima della sentenza della Corte Costituzionale, che ha invece smascherato l’illegittimità di quanto accaduto».
Però il Csm ha aperto un procedimento disciplinare riguardante il Pm torinese Gianfranco Colace e la Gip Lucia Minutella, che di fatto sono stati i registi dell’inchiesta.
«Francamente non nutro alcuna fiducia. E se anche l’esito dovesse essere equo, non mi sarà restituito nulla di quello che in questi sette anni mi è stato tolto. Piuttosto, credo fermamente che il sistema giustizia debba essere effettivamente riformato con un intervento strutturale. Oggi quello che serve è una responsabilità civile chiara e ben formulata, che stabilisca che, nel momento in cui un Pm o un magistrato commettono errori evidenti e conclamati, debbano affrontare una punizione certa. Non possiamo accontentarci dei processi disciplinari attuali».
Qui si parla di politica. A proposito: Schlein l’ha sentita?
«Perché avrebbe dovuto chiamarmi? Non mi pare che il garantismo sia al centro della sua agenda, né tantomeno, di conseguenza, a quella del partito. Però ho ricevuto tanti messaggi da militanti ed ex colleghi: quelli sì, mi hanno fatto molto piacere».
Perciò non tornerà in politica.
«La mia comunità di riferimento è scomparsa. Era prevedibile: inizialmente si è schierata populisticamente in contrasto a Silvio Berlusconi, che sulla giustizia aveva le sue ragioni, ora per me più comprensibili; oggi, invece, rilevo l'adozione supina della cultura grillina, che ha prevalso senza un reale confronto».
Dopo sette anni cosa le resta?
«Tante, troppe cicatrici. Non solo su di me, ma anche sui miei cari. E questo non lo riesco a tollerare. Però, oltre alla profonda amarezza, provo anche gratitudine, più di quanto le parole possano esprimere, nei confronti dei due Pm romani che, con serietà e competenza, hanno deciso di entrare nel merito delle accuse, archiviando il caso. È paradossale: oggi siamo grati a chi svolge bene il proprio lavoro. Eppure, è così».
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