L'ESORDIO LETTERARIO DELL'AVVOCATO BENASSI
Un delitto che nascondeil marcio della società moderna
di Andrea Mastrangelo
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REGGIO. Irridente, blasfemo, eccessivo, interessante, divertente. Tutti aggettivi che si attagliano perfettamente al libro scritto e pubblicato da chi scrittore non è, cioé un avvocato del Foro di Reggio. «Omicidio a Calafuria e altri putiferi» è il romanzo con il quale Giuseppe Benassi dà il via a quella che potrebbe diventare una serie, con protagonista un fantacollega dell’autore, ossia l’immaginario avvocato Borrani di Livorno, cinquantenne stanco e annoiato alla ricerca di nuove emozioni, senza più freni inibitori e perennemente in cerca di occasioni per mostrarsi anticonformista, a costo di cadere nel ridicolo.
La trama è quasi un pretesto. Il romanzo è ambientato nella Livorno di dieci anni fa, dove sotto una torre accanto al mare viene commesso un omicidio. Uno dei centomila omicidi che puoi trovare in libreria, si potrebbe dire. Invece questo ha qualcosa di diverso, perché partendo dal delitto, l’avvocato vero (Benassi) prende lo spunto per offrire all’avvocato immaginario (Borrani) gli strumenti necessari a mettere alla berlina i pregiudizi, il malcostume, la superstizione della società contemporanea. Un’operazione che può essere attuata secondo varie strade: Benassi sceglie la via del linguaggio, senza farsi scrupolo di ricorrere agli angoli più riposti del vocabolario, senza paura di sporcarsi le mani con la volgarità del quotidiano, dove la falsità del vivere secondo copioni di facciata può essere ben più offensiva di qualsiasi parolaccia. Ce n’è per tutti ma soprattuto per i benpensanti, gli arricchiti e i bigotti. Certo non si tratta di un romanzo per bambini, e non si tratta neppure di un giallo in senso stretto, visto che le pagine migliori non sono quelle che si occupano dello sviluppo della trama ma quelle dedicate al delirio psicologico di un uomo in crisi e alla raffigurazione verbosa di una società in disfacimento. Un paragone, senza voler volare troppo in alto? La sceneggiatura di quel capolavoro che è “Signore e signori”, il film di Pietro Germi. E, con le debite proporzioni, non è poco.
La trama è quasi un pretesto. Il romanzo è ambientato nella Livorno di dieci anni fa, dove sotto una torre accanto al mare viene commesso un omicidio. Uno dei centomila omicidi che puoi trovare in libreria, si potrebbe dire. Invece questo ha qualcosa di diverso, perché partendo dal delitto, l’avvocato vero (Benassi) prende lo spunto per offrire all’avvocato immaginario (Borrani) gli strumenti necessari a mettere alla berlina i pregiudizi, il malcostume, la superstizione della società contemporanea. Un’operazione che può essere attuata secondo varie strade: Benassi sceglie la via del linguaggio, senza farsi scrupolo di ricorrere agli angoli più riposti del vocabolario, senza paura di sporcarsi le mani con la volgarità del quotidiano, dove la falsità del vivere secondo copioni di facciata può essere ben più offensiva di qualsiasi parolaccia. Ce n’è per tutti ma soprattuto per i benpensanti, gli arricchiti e i bigotti. Certo non si tratta di un romanzo per bambini, e non si tratta neppure di un giallo in senso stretto, visto che le pagine migliori non sono quelle che si occupano dello sviluppo della trama ma quelle dedicate al delirio psicologico di un uomo in crisi e alla raffigurazione verbosa di una società in disfacimento. Un paragone, senza voler volare troppo in alto? La sceneggiatura di quel capolavoro che è “Signore e signori”, il film di Pietro Germi. E, con le debite proporzioni, non è poco.