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Eccidio delle Reggiane: «Dopo quella strage diventai partigiano»

di Chiara Cabassa
Eccidio delle Reggiane: «Dopo quella strage diventai partigiano»

Il testimone Fernando Cavazzini, 90 anni, racconta: «Ho sentito le pallottole fischiare, poi le urla e il sangue. Non potevo continuare a lavorare in un posto dove si costruivano aerei da guerra»

27 luglio 2013
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REGGIO EMILIA

«Quel giorno c’ero anch’io. E da quel giorno sono diventato una persona diversa». Fernando Cavazzini, 90 anni, il 28 luglio 1943 stava parlando con un amico a 50 metri dal cancello delle Officine Reggiane quando si è sentito passare le pallottole sopra la testa. Quelle stesse pallottole che avrebbero dopo pochi istanti colpito mortalmente nove suoi colleghi delle Reggiane: Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Nello Ferretti, Eugenio Fava, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi e Angelo Tanzi.

Cosa si ricorda di quei tragici momenti? «Il fischiare delle pallottole che all’improvviso ha trasformato una giornata qualunque in una giornata di sangue. E ancora l’amico con il quale parlavo a pochi metri dal cancello delle Reggiane improvvisamente scomparire, ed è stato per sempre. E poi la folla in piazza Prampolini, le urla, le sirene, il sangue. La fine».

E il giorno dopo tornare al lavoro, come se niente fosse accaduto. «Avevo 20 anni e una grande voglia di lavorare, prima di quella giornata che a qualcuno ha rubato la vita, ad altri l’ha cambiata per sempre. Facevo il tornitore meccanico, avevo una grande passione per la ricerca, e sarei stato in officina giorno e notte. Ma quello che ho visto quel giorno mi ha letteralmente trasformato: vedere l’esercito sparare sulla folla, assistere alla morte di nove giovani innocenti, ma soprattutto capire in cosa consisteva il mio lavoro. Si continuava a produrre aerei, aerei da guerra, tutto questo non poteva lasciarmi indifferente».

Eppure la vita continuava, e in officina bisognava comunque andare... «Sì, ma non è più stato come prima. Io, che non avevo neppure fatto il militare (i lavoratori delle Reggiane erano esonerati dal servizio militare, ma poi nel marzo del ’44 è arrivata la cartolina) ho iniziato a interessarmi e a impegnarmi in prima persona in politica. Avevo preso coscienza del fatto che lavoravo per costruire armi da guerra con le quali uccidere i “nemici”, ma io non volevo essere complice di tutto questo. Così, pur continuando a lavorare, cercavo di fare il meno possibile. Quando potevo, presentavo dei certificati medici per stare lontano da quel posto. Con il mio lavoro non avrei fatto altro che produrre morte. Non lo potevo accettare».

Quale alternativa aveva? «Ho deciso che sarei entrato nelle fila dei partigiani. Lo sentivo come un dovere. Così l’8 marzo me ne sono andato in montagna insieme ad altri 27 partigiani. Tra i monti, nome di battaglia Tony, sono rimasto 14 mesi, fino al 25 aprile 1945, quando con la mia squadra - i sabotatori “Demonio” - ho aperto l’ingresso dei partigiani in città».

Mai avuto paura di morire? «Potevo essere ucciso il 28 luglio del 1943. E, come partigiano, sapevo di rischiare ogni giorno. Il nostro compito - da qui il nome di sabotatori dato alla mia squadra - era quello di minare e fare saltare i ponti nella provincia di Reggio. Il pericolo era ovunque. Ma la forza delle idee e la volontà di combattere erano più forti della paura di morire. E tutto questo è nato dentro di me dopo l’orrore di quella giornata di sangue. Che mi ha aperto gli occhi su quello che stava accadendo e che io, chiuso nel mio mondo, non ero riuscito a comprendere».

Oggi, a novant’anni, di cosa ha paura? «Mi fa paura una situazione politica nella quale tutti vogliono comandare ma nessuno sa davvero in nome di che cosa intende battersi».

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