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«Quel suo debito verso Zavattini»

«Quel suo debito verso Zavattini»

Il direttore della Panizzi ricorda il legame di Gabo con il luzzarese

19 aprile 2014
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Quella di Reggio può sembrare una prospettiva troppo piccola e periferica per inquadrare un gigante delle dimensioni di Gabriel Garcia Marquez, lo scrittore colombiano scomparso due giorni fa a Città del Messico. Eppure proprio Marquez riconosceva di essere debitore nei confronti di Cesare Zavattini, lo scrittore e sceneggiatore luzzarese morto nel 1989 alla stessa età (87 anni) in cui era destinato a morire anche lui.

Lo sottolinea Giordano Gasparini, direttore della biblioteca Panizzi, ricordando una dichiarazione di Marquez riportata nel catalogo dell'opera zavattiniana pubblicato recentemente dalla Panizzi con il titolo “Un prorompente archivio”.

«Credo – confessava Marquez – che si possa affermare che la radice del realismo magico del romanzo latino-americano sia un film come “Miracolo a Milano”. Si tratta della pellicola girata nel 1951 da Vittorio De Sica, tratta dal romanzo “Totò il buono” di Zavattini. Marquez aggiungeva: «Non c'è stato un tentativo di imitazione da parte nostra. Quel cinema ci ha solo svelato una realtà che noi eravamo abituati a guardare con occhi diversi. Il realismo fantastico della letteratura del nostro continente l'ha inventato Cesare Zavattini».

«In effetti – spiega Gasparini – Zavattini era un autore molto conosciuto in America latina. Marquez seguiva le sue lezioni a L'Avana e volle essere presente quando gli fu intitolata una piazza nella capitale cubana». E’ un motivo in più per rendere omaggio allo scrittore sudamericano. La biblioteca municipale lo fa esponendo in una vetrina, al piano terra, le sue opere conservate negli scaffali e prestate a una miriade di lettori. Sono molti, infatti, i reggiani che si sono innamorati di quei libri. Clementina Santi, presidente dell'Associazione scrittori reggiani, ricorda con grande emozione la scoperta del romanzo “Cento anni di solitudine”. «Lo lessi – riferisce – a diciannove anni. Mi colpì la grandezza della narrazione, un po' visionaria, che rivelava verità profondissime. Sono rimasta impressionata, inoltre, dalla semplicità che Marquez rivelava nelle interviste, raccontando il suo incontro con il papa Giovanni Paolo secondo e sottolineando la volontà dello scrittore di essere originale». «Leggendo Garcia Marquez – dice la scrittrice Ivanna Rossi – mi sembrava di entrare in un mondo favoloso. Credo di aver letto avidamente tutti i suoi libri. Mi chiedevo sempre che cosa ci fosse di così affascinante nei suoi racconti. Non erano le storie dei personaggi folli, non era l’assurdità di una Spagna e di un’Europa naufragata nella giungla lontana del sud America. Era piuttosto il suo modo di raccontare, di usare il passato remoto, che diventava una funzione del presente e del destino. Una scrittura davvero formidabile. La scrittura della nostra lontananza dalle cose».

Iris Giglioli, presidente della fondazione Palazzo Magnani, non è meno entusiasta. «I suoi capolavori – spiega – mi hanno catturata grazie anche allo stravolgimento delle modalità narrative, al calore immenso della narrazione». «Come tutti – confessa Tullio Masoni, critico cinematografico – ho un grande debito verso Cento anni di solitudine, che nel 1969 ci aprì gli orizzonti della letteratura latino-americana. Quelli erano anni di grande impegno politico. In Marquez ci colpì la capacità di trattare le questioni sociali in una forma metaforica, con una sorta di sublimazione fantastica. Per quanto riguarda i film tratti dalle sue opere, non ho molto apprezzato Cronaca di una morte annunciata di Francesco Rosi, che è una trascrizione un po' convenzionale, ma con qualche motivo di interesse per l'uso del tempo».

Luciano Salsi