Gazzetta di Reggio

Reggio

Pochi, giovani, disarmati contro l’esercito tedesco

di MASSIMO STORCHI *
Pochi, giovani, disarmati contro l’esercito tedesco

Agli inizi del 1944 i partigiani che si aggiravano sull’Appennino reggiano non avevano organizzazione e addestramento sufficienti. Poi tutto cambiò...

23 aprile 2014
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di MASSIMO STORCHI *

I partigiani impararono a fare la guerra nel modo più difficile: facendola. Quelle poche decine di uomini quasi disarmati che si aggiravano sul nostro Appennino agli inizi del 1944 non avrebbero mai immaginato di poter affrontare l’esercito migliore, quello tedesco, se non nell’unico modo che una lotta di guerriglia consente: attacchi rapidi seguiti da un’altrettanto rapido ripiegamento. Affrontare il nemico e riuscire anche a vincere, qualche volta, azioni militari in teoria così impossibili da far diventare nel racconto e nella storiografia “battaglie” quelli che erano stati in realtà scontri armati anche di ampie dimensioni.

Di fronte a formazioni regolari e addestrate, fornite di un’efficiente rete di collegamenti e mezzi di trasporto cosa tentare se non colpi improvvisi, con l’elemento sorpresa come arma più efficace? Solo dal maggio 1944 gli alleati iniziarono a rifornire, con lanci aerei, le formazioni garibaldine di armi, esplosivi ed equipaggiamento. Ma anche questo non poteva bastare se non si fosse riuscito ad organizzare una forza di combattimento fatta di uomini addestrati e motivati. Operazione difficile per un esercito di volontari, fatto in gran parte di ragazzi saliti in montagna per sfuggire i bandi di arruolamento dell’esercito di Salò. Gli uomini esperti, quelli che il fascismo aveva mandato ad invadere la Grecia, la Jugoslavia, l’Urss, erano pochi e divennero, inevitabilmente, i comandanti dei vari distaccamenti, cresciuti poi fino a diventare battaglioni e brigate.

I veri eserciti sono fatti dai sergenti, è cosa nota, e questo è ancora più vero per un esercito partigiano. Decisiva fu l’esperienza proprio di quei sottufficiali del Regio Esercito che avevano combattuto contro i partigiani di Tito e che ora, a parti invertite, mettevano a frutto quella esperienza. Ma un esercito si costruisce poco alla volta, sfruttando le occasioni e mettendo a frutto gli errori. Si impara ad essere partigiano giorno per giorno.

Addestramento, armi, collegamenti, comandanti, tutte cose importanti ma ci vuole anche la buona sorte, un pizzico di fortuna come nella prima “battaglia” del 15 marzo 1944 a Cerrè Sologno, quando la prima formazione partigiana (ancora mista di reggiani e modenesi, per unire le forze) si scontra con uno Jagdkommando tedesco rinforzato da fascisti. In un borgo di montagna coperto di neve i nemici si trovano per caso. I partigiani (se così possono già chiamarsi, visto che la metà degli uomini sono ragazzi disarmati appena saliti dalla pianura) sono esausti dopo una marcia nella neve e si sistemano come possono nelle case, in cerca di una dormita e di un pasto caldo. Il gruppo nazista e fascista è in cerca dei “ribelli” ma non si immagina di trovarli lì, non circonda il paesino ma entra fra le case e viene sorpreso dal fuoco delle poche armi partigiane. Lo scontro dura per ore, in una lotta quasi casa per casa, cadono i primi ragazzi poi, in un momento di sosta, rumori lontani annunciano l’arrivo di altri combattenti. Per qualche momento sembra tutto perduto, si pensa che i tedeschi abbiano chie. sto, e ottenuto, rinforzi e invece sono altri partigiani, quelli di Luigi (Pio Montermini, già combattente in Spagna e che sarà poi il Comandante della 26ª Brigata Garibaldi) che con una marcia incredibile nella neve fresca sono riusciti, dopo aver fatto saltare il ponte a Gatta, ad arrivare a salvare la situazione. La “battaglia” si risolve in una disfatta per i nazisti e fascisti che lasciano sul terreno 10 morti e 22 prigionieri. Ma la vittoria è relativa: 7 partigiani sono uccisi e i due comandanti partigiani Miro e Barbolini sono feriti, non resta quindi che muoversi velocemente verso il crinale, fermarsi una notte a Monteorsaro e a Cervarolo per poi rifugiarsi nel Modenese, dove la prima formazione partigiana nasconde le armi e si scioglie, in attesa di tempi migliori. Così si concludeva la prima parte della lotta armata in montagna.

Ma non sarebbe stato il primo sbandamento, la prima sconfitta. A volte anche il numero, la quantità delle formazioni può diventare una debolezza. È quello che accade alla fine di luglio 1944: dopo la scadenza dei bandi fascisti di arruolamento, il 24 maggio, sono centinaia i giovani delle classi 1922, 1923, 1924 a salire in montagna, l’arrivo dell’estate sembra portare la svolta decisiva, Roma è liberata il 4 giugno e gli alleati sembrano ormai lanciati verso nord. Anche sul nostro Appennino le cose sembrano decise: i fascisti non riescono a mantenere i presidi e si ritirano, si combatte allo Sparavalle e i paesi sono liberati, Ligonchio, Toano, Villa Minozzo diventano i primi luoghi liberi dopo vent’anni, si costituisce la Repubblica di Montefiorino, si indicono libere elezioni, i Cln diventano le amministrazioni locali.

Ma è un sogno effimero, con gli alleati in avanzata i tedeschi non possono permettersi una testa di ponte sull’Appennino dove hanno già progettato la loro ultima linea di difesa e devono rispondere al disperato bisogno di manodopera del Reich, dopo il fallimento dei bandi di arruolamento volontario al lavoro. All’alba del 30 luglio scatta l’Operazione Wallenstein II: reparti tedeschi, con l’appoggio dell’artiglieria e di mezzi corazzati, attaccano in forze su più versanti e lo sbandamento è inevitabile. Troppi uomini disarmati, pochi comandanti all’altezza, collegamenti che saltano nelle prime ore, non è previsto un piano organico di ripiegamento per sganciarsi secondo le regole della guerriglia di fronte al nemico preponderante.

Chi cerca di resistere, combattendo sul posto, è inevitabilmente spazzato via. L’attacco dura qualche giorno ma già dopo 48 ore la sorte delle formazioni partigiane è decisa. Restano sul terreno 21 caduti, 6 i dispersi, le formazioni non esistono più, vengono fatti saltare i depositi di armi e munizioni accumulati faticosamente nelle settimane precedenti. Tutta la montagna è messa a ferro e fuoco: Toano, Villa Minozzo, Razzolo incendiate, il bestiame razziato, il grano, quasi maturo, bruciato nei campi. Più di 200 uomini sono catturati e avviati alla deportazione in Germania. Solo alla fine di agosto le formazioni torneranno ad organizzarsi con una nuova struttura di comando (nascerà il Comando Unico e, a fianco delle Brigate Garibaldi, la Brigata Fiamme Verdi, guidata da Carlo don Domenico Orlandini) e, con la collaborazione degli ufficiali inglesi aggregati si ricostituiranno le squadre, i distaccamenti, le brigate, con un preciso e organico addestramento militare, curando in particolare le comunicazioni (tenute dalle “staffette”) e facendo tesoro dell’esperienza applicando rigorosamente la tattica del mordi e fuggi, l’unica in grado di garantire risultati militari e la sopravvivenza delle formazioni.

Ma ci saranno ancora errori, incertezze, ingenuità, elementi tutti che in guerra si trasformano in regali preziosi al nemico. Come a Legoreccio in novembre, quando il distaccamento “Cervi” compie l’errore di sostare troppo a lungo nel borgo, i tedeschi dell’unità speciale antiguerriglia che ha sede a Ciano d’Enza, informati dalle spie, sorprendono il gruppo partigiano. Circondati e dopo un breve combattimento quelli del “Cervi” accettano la resa, confidando in un recente accordo che riconosce loro lo status di prigionieri di guerra. Ma i fascisti presenti esigono l’annientamento del gruppo, 18 partigiani sono uccisi sul luogo, mentre altri 6 verranno fucilati nelle settimane seguenti.

Il rastrellamento di estate costituì una prova terribile ma, in qualche modo, utile. Dal 1° al 7 gennaio 1945 di nuovo i tedeschi, con l’appoggio fascista, tentano un’azione su vasta scala. Le condizioni metereologiche sono difficilissime, tipiche di quell’inverno terribile, neve e gelo rendono tutto più difficile. Ma stavolta le cose sono diverse, le formazioni attaccate si difendono, ripiegano, non si sbandano, non perdono armi ed equipaggiamento. Le perdite sono ancora pesanti (17 partigiani uccisi, 10 feriti e 20 congelati) ma dopo dieci giorni, ritiratisi i tedeschi, la montagna è di nuovo nelle mani dei partigiani capaci, di fronte ad un’attacco di ampie dimensioni partito nell’ultima settimana di marzo di fermare un attacco sul Monte della Castagna presso Ca’ Marastoni il 1° aprile (giorno di Pasqua) e di respingerlo, grazie alla collaborazione fra Fiamme Verdi (che lasciano sul terreno 7 caduti), Brigate Garibaldi e Battaglione “Russi”. Pochi giorni prima in un’azione congiunta fra Sas britannici, Garibaldini (con la Squadra “Gufo nero”) e partigiani russi era stato messo fuori gioco il Va, sezione del comando generale tedesco in Italia e quartier generale del LI Gebirgskorps, a Botteghe di Albinea. L’organizzazione, i collegamenti, il controllo del territorio consentirono alla Resistenza di svilupparsi anche nel contesto logisticamente più inadatto: la pianura. I fascisti, asserragliati nei loro presidi, sapevano di dover agire in un contesto ostile dove i partigiani avevano la supremazia e dove furono in grado, come a Fabbrico il 27 febbraio, di scendere in campo aperto in quella che, forse, è la sola vera “battaglia” della Resistenza reggiana quando, organizzate e coordinate, le squadre di Sap (di Fabbrico, Reggiolo, Correggio, Rio Saliceto e Fossoli) riuscirono a liberare 22 ostaggi presi dai fascisti e con perdite limitate (3 partigiani e un civile), a tenere in scacco per ore il nemico e, al momento opportuno, ritirarsi, raccogliendo armi ed equipaggiamento del nemico che ebbe 6 morti nella Brigata Nera, uno della Gnr ed un ufficiale tedesco. Era passato nemmeno un anno dal primo scontro di Cerrè Sologno e i partigiani, sulla loro pelle, avevano imparato come si combatte e si vince anche il nemico più forte e spietato.

*Istoreco

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