«Grande Aracri, un clan potente»
Inchiesta “Grande Drago”: la Cassazione conferma 5 condanne e le infiltrazioni a Reggio e nel Nord
Ieri il colpo di coda di quella maxi operazione – conosciuta come “Grande Drago” – che per la prima volta, nel 2002, comprovò le infiltrazioni mafiose, con nel mirino la cosca cutrese Grande Aracri ritenuta ben ramificata in almeno sei province del Nord Italia, con una “presenza” non secondaria nel Reggiano.
Un’operazione per contrastare le attività illecite marchiate ’ndrangheta che avrà ulteriori sbocchi nella nostra provincia con i tredici arresti del 2003 nell’inchiesta conosciuta come Edilpiovra, non molti mesi fa rinfocolatasi con il sequestro dei beni – a Brescello – di Francesco Grande Aracri. Ma torniamo a “Grande Drago” che 12 anni fa fece scattare l’arresto, fra i 28 effettuati, per tre persone d’origine calabrese che risiedevano nella nostra provincia: Nicolino Grande Aracri (per gli investigatori a capo della cosca dopo aver vinto la “guerra” con i Dragone), Antonio Floro Vito e Carmine Pascale. Da allora si è innescata un’intricata e lunga vicenda giudiziaria, culminata ieri mattina con l’esecuzione dell’arresto per cinque persone: i cutresi Francesco Lamanna, Antonio Villirillo, Gennaro Pascale ed Alfonso Mesoraca, nonché il siciliano Gianluca Amato (il primo residente a Cremona, gli altri nel Piacentino, a Monticelli d’Ongina). A tutti e cinque sono state confermate le condanne per associazione mafiosa – da un minimo di un anno e mezzo ad un massimo di tre anni e tre mesi, a seconda delle posizioni – da parte della Cassazione. E per loro le porte del carcere si sono aperte velocemente in quanto i carabinieri hanno temuto che fuggissero. «Penso che lunedì parto» si era lasciato scappare uno di loro in un italiano incerto, comunque intercettato. Mentre un altro, colto di sorpresa, ha esclamato: «Mi spiace essere arrestato di sabato, così non potrò andare a votare...». La Cassazione li ha condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al traffico di droga, alla detenzione illegale di armi comuni e da guerra, alle estorsioni (vittime i titolari di alcuni locali notturni), alla violazione della normativa in materia tributaria in relazione a fatturazioni inesistenti, al riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. Per gli avvocati difensori (Luigi Colacino, Antonio Voce e Fabrizio Salviati) non vi sono elementi per affermare l’esistenza di una cosca composta da quelle persone, ritenendo prive di valore anche le rivelazioni del pentito Angelo Salvatore Cortese che all’epoca dei fatti contestati agli imputati era in carcere. Ma la Corte Suprema ha smontato le tesi difensive. Dodici anni fa, durante le perquisizioni e gli arresti, erano stati trovati vistosi anelli in oro in cui è rappresentata l’effigie di un leone con le fauci spalancate: il numero e la posizione dei rubini sugli occhi del leone e sui denti aguzzi indicherebbero, secondo gli inquirenti, il segno della posizione gerarchica all’interno della cosca cutrese.
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