Gazzetta di Reggio

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Piazza della Loggia così la bomba entrava nella vita degli italiani

Piazza della Loggia così la bomba entrava nella vita degli italiani

La strage vista attraverso gli occhi di un ragazzino di 12 anni I Teatri coproducono “Il sogno di una cosa”, dedicato all’eccidio

29 maggio 2014
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Continua dalla prima

Le finestre guardano verso i Ronchi, le colline piene di ville che distano solo qualche centinaio di metri.

Il primo accenno di risveglio arriva al passaggio di un’ambulanza. Le sirene in teoria sono tutte uguali, in realtà lo capisci subito quando c’è qualcosa di grosso, perché la sirena prende un tono tutto diverso, rabbioso. Quella sirena è più che arrabbiata, è furente. Qualcuno stacca la testa dal pugno e allunga il collo a guardare meglio fuori dalla finestra, ma non si vede niente. Poi però di sirene ne arriva una seconda, poi una terza, una quarta. Non si sente altro che un rumore fortissimo, indistinto, come di un tornado che si avvicina, ti passa sopra e poi si allontana. Anche il professore smette di parlare, si alza, va alla finestra e lancia un’occhiata alla vicina strada sotto la collina, fradicia d’acqua. Non c’è più niente, tutte le ambulanze sono passate. «Dev’essere successo qualche grave incidente stradale», dice con la serenità che tutti gli riconosciamo. Torna alla cattedra e si rimette a spiegare ma l’attenzione, scarsissima già da prima, è perduta per sempre.

Mancano dieci minuti alla fine dell’ora e dal corridoio comincia ad arrivare altro rumore. Non sono i soliti tre o quattro rompiballe che con la scusa di andare al cesso restano fuori dall’aula a fare casino, stavolta c’è qualcosa che non va, perché si sentono le voci di adulti che parlano in maniera concitata. Fra le tante, una è la voce del preside. Il professore di italiano si alza, apre la porta e mette fuori la testa. Nel giro di dieci secondi si aprono tutte le porte, non ne resta chiusa nemmeno una, e dalle classi fuoriesce un frastuono che sembra quello della sala macchine di un transatlantico. Nessuno sta zitto, ognuno deve dire qualcosa. Non sai perché in tutta la scuola le lezioni si sono fermate, vuoi una risposta e la vuoi subito.

La giornata di scuola è persa, questo lo si capisce subito. L’ora di italiano è finita, nessuno ha fatto suonare la campanella e rientra ancora lo stesso professore, che si siede e trova davanti a sè una classe di dodicenni, quasi tredicenni, muti come mai lo sono stati dall’inizio delle medie.

«E’ scoppiata una bomba». Anzi no, dice esattamente: «Hanno fatto scoppiare una bomba». Siamo in seconda media, non abbiamo studiato né la Prima né la Seconda guerra mondiale, di bombe non ne abbiamo ancora trovate lungo la nostra vita. Chi ha fatto scoppiare una bomba? Cosa succede quando qualcuno fa scoppiare una bomba? «Hanno fatto scoppiare una bomba in piazza della Loggia», riattacca il professore, che nel frattempo ha assunto le sembianze di una statua di cera. «C’era una manifestazione, ci sono dei morti. Non si sa ancora chi sia stato, del caso si sta occupando il pretore che è il padre di un vostro compagno di terza».

Senza dire altro il professore esce e se ne va verso un’altra classe dove avrebbe dovuto essere da un bel pezzo, trovando anche lì solo un bordello generale. Arriva la professoressa di matematica, madre di famiglia, una che interrogherebbe anche gli ultimi cinque minuti dell’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola, ma si capisce subito che oggi di matematica non se ne farà proprio. Il dubbio è: cosa fare di noi. Tenerci a scuola fino alle 13 in quel clima surreale o rispedirci a casa subito? Nessuno ha ancora uno straccio di notizia precisa su quello che è successo in piazza della Loggia, che in linea d’aria è a 500 metri, e il preside decide che è meglio andare avanti in qualche modo piuttosto che abbandonare tutti noi quasi-ragazzi in mezzo alla strada. Qualche genitore, però, è già arrivato. La mamma di uno di terza è tutta trafelata e chiede al primo professore conosciuto che incrocia: «E’ qui mio figlio?». «E dove vuole che sia?», le risponde quello. «Sa, mio figlio ha solo tredici anni ma è una testa calda».

Poi, a Dio piacendo, arriva l’una di quel martedì 28 maggio 1974 e si va a casa, nessuno da solo, tutti a gruppetti di due o tre. «Lo dirà il telegiornale?», ci si chiede. «Vuoi che non lo dica? Sarà la prima notizia». A casa insieme alla pasta trovo il televisore già acceso, con giornalisti mai visti prima che parlano di quello che è successo nella mia Brescia. Morti, feriti, pezzi di gente nelle vetrine dei negozi, parti di un corpo nella fontana di piazza della Loggia. Non ci sono tanti filmati, ci sono invece molte foto che mostrano dei posti che conosco benissimo, dove vado quasi tutti i giorni. Piazza della Loggia con il suo portico e i suoi negozi, i suoi marmi bianchi. Si contano i morti, i feriti sono tantissimi, ma i nomi che vengono snocciolati in maniera sempre più ossessiva non mi dicono niente, i cognomi non sono quelli di nessuno fra i miei amici. Dalla televisione mi raccontano che al mattino c’era una manifestazione del sindacato e che qualcuno aveva nascosto una bomba nel cestino delle cartacce attaccato alla colonna di marmo del porticato. Siccome pioveva forte, tutti si erano accalcati proprio sotto al portico. In pratica la gente era andata a stringersi attorno alla bomba.

Non ho le idee chiarissime sul perché di quella manifestazione, invece capisco benissimo che chi ha messo la bomba è un mostro. Nel pomeriggio, saranno le cinque, devo andare all’oratorio che sta alla fine di un borgo fatto di vecchie case popolari, talmente popolari che nemmeno il Manzoni saprebbe descriverle come si deve. In fondo al borgo c’è un’edicola, completamente circondata da persone con le mani in tasca. Ha smesso di piovere da un pezzo ma fa ancora fresco. Sono tutti operai e piccoli bottegai della zona, aspettano qualcosa. Quel qualcosa arriva quasi subito, è un furgoncino dal quale un tizio riesce a malapena a scaricare e a mettere nelle mani dell’edicolante un pacco di giornali legati con lo spago. La gente ai avventa sull’edicola, tutti con le monetine strette fra il pollice e l’indice. Nel giro di un minuto resta solo lo spago; i giornali erano un’edizione straordinaria del Giornale di Brescia con in copertina l’enorme foto di qualcuno riverso sul selciato della piazza con qualcun altro che lo sorregge piangendo.

Per giorni i telegiornali parlano sempre della nostra Piazza della Loggia, l’elenco dei morti continua ad essere scandito e si allunga un poco. Non c’è invece nessun elenco degli arrestati o dei semplici sospettati.

Usando un luogo comune fra i più tristi, la vita continua. Parlando della mia, la vita continua lasciando Brescia per Reggio Emilia dove trovo il tempo per arrivare alla mezza età facendo un mucchio di cose, fra le quali diventare amico di un certo numero di persone fantastiche, scrivere, conoscere un questore che era capo della Squadra mobile di Brescia il 28 maggio 1974 e, tutte le volte che a Brescia ci torno in compagnia, portare chiunque in Piazza della Loggia a vedere la colonna di marmo sbrecciata dietro al monumento alle vittime della strage. Ci ho portato mio figlio quando ancora era piccolo, di recente ci ho accompagnato tutta una classe elementare in gita.

Sono passati quarant’anni e fra un po’ Piazza della Loggia e i suoi morti si sposteranno di oltre cento chilometri per venire nella mia Reggio Emilia. Dopo aver passato decenni a spiegare ad altri cos’è la strage di Brescia, la piazza e quei cadaveri verranno raccontati nuovamente a me, in modo diverso. Accadrà a teatro, visto che il Municipale insieme al Grande (che è il suo equivalente a Brescia) ha scelto di produrre un’opera che si intitola “Il sogno di una cosa”. Mauro Montalbetti ci ha messo le note, Marco Baliani il libretto e la regia: è un’opera dedicata alla strage di Piazza della Loggia. Dove la giustizia non è arrivata, è arrivata la musica. Le prime recensioni ne parlano benissimo, anche se è ovvio che l’intento storico finisca per avere lo stesso rilievo dell’esito artistico.

Con la scelta di parlare della strage di Piazza della Loggia, Reggio Emilia e i suoi teatri fanno una scelta nel segno della grande tradizione di civiltà e di cultura che è loro propria, anche perché i morti per quella bomba non sono morti bresciani, sono morti italiani. A quarant’anni da quella lezione di lettere finita prima del tempo, per tutto quel sangue ci sono due innocenti e due non colpevoli. Siccome non è vero che i morti vivono e lottano insieme a noi, è bene che almeno un palcoscenico di teatro insegni a qualche dodicenne del Duemila cos’è una bomba.

Andrea Mastrangelo

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