Moni Ovadia: «Israele non cerca la pace vuole solo colonizzare»
L’attore-istrione sarà presente al Festival della Resistenza «La Memoria è un progetto per il nostro futuro»
GATTATICO. «La memoria è un progetto per il futuro, ciò che ci permette di scegliere dove andare e cosa siamo».
Dalla Resistenza al nazifascismo che ha fondato l’Italia repubblicana alle nuove forme di resistenza all’oppressione politica, militare e ideologica e un pensiero a quanto accade ora a Gaza e in Palestina.
Spiritualità khassidica, impegno politico, denuncia sociale e cultura del diverso convivono nelle parole di Moni Ovadia, che domenica sera chiuderà la tredicesima edizione del Festival teatrale della Resistenza, protagonista nelle scorse tre settimane nell’aia della Casa che fu dei sette fratelli Cervi, martiri della lotta antifascista. Oltre a premiare i vincitori del festival, l’artista porterà sul palco di Gattatico il suo spettacolo “Il registro dei peccati”, un recital-reading sul mondo khassidico.
«Raccolgo sempre con piacere gli inviti del Museo Cervi – spiega Ovadia – un’istituzione antifascista tra le più importanti d’Italia e uno dei luoghi di memoria più significativi del nostro Paese. Difendere e mantenere questa memoria, sempre più minacciata da aggressioni di tipo revisionistico, è un impegno a cui bisogna contribuire».
In che modo il teatro può portare avanti la memoria e i valori della Resistenza? Deve essere un “teatro di memoria” o aprirsi alle nuove forme di resistenza?
«In passato ho già fatto un intervento per cambiare il nome del “Giorno della memoria” in “Giorno delle memorie”. La memoria è un progetto per il futuro. È ciò che ci permette di scegliere dove andare. È un tema che affronto spesso quando vado nelle scuole e che vorrei spiegare con un esempio».
Prego.
«Ai ragazzi chiedo sempre cosa toglierei se io li mettessi in una camera iperbarica assieme alla loro playstation, lasciandoli lì dentro per un’ora, separandoli completamente dal mondo interno. La risposta è la loro memoria, ciò che permette di sapere chi siamo».
In che modo la spiritualità e la ricerca individuale si possono affiancare a un impegno attivo nella difesa della memoria, resistenziale e non solo?
«Il mio spettacolo è una riflessione sulla spiritualità dell’esilio ebraico, uno sguardo sulla dimensione interiore del cammino di senso di tutti con i propri simili. Questo è uno dei pensieri che condividevo con il mio amico Don Gallo: non esiste una vera rivoluzione se questa tocca solo la dimensione sociale, ma questa deve toccare anche l’aspetto spirituale».
Anche in Palestina c’è chi resiste?
«Il popolo palestinese sta resistendo da 50 anni; sta resistendo alla colonizzazione di Israele, che l’ha ridotto in un Bantustan sul modello sudafricano e da anni il popolo palestinese mette in campo questa sua lotta, sotto lo sguardo di una comunità internazionale insensibile. Israele non ha una costituzione, non ha mai dichiarato i propri confini e non cerca la pace».
Il mondo della cooperazione italiano, anche reggiano, sostiene alcune onlus che si occupano di aiutare i palestinesi, ma, allo stesso tempo, lo Stato italiano appoggia Israele: ancora una volta l’Italia è divisa in due dalla politica o c’è qualcos’altro?
«La politica estera italiana conta come il due di picche a carte e una politica estera europea non esiste. L’Ue è la principale responsabile del disastro, continuando a non intervenire. Come ha spiegato con coraggio una giornalista israeliana su Haaretz, Gideon Levy, Netanyahu non vuole la pace: il suo Stato continua a considerare Hamas come forza terroristica, non un interlocutore politico, mettendola fuori dalle leggi. Gaza è una gabbia, Israele controlla tutto, anche l’anagrafe».
La cultura e il teatro, come possono aprire ai giovani gli occhi su questo conflitto e le altre forma di resistenza del tempo presente?
«Dobbiamo insistere sul carattere universale degli esseri umani. Discendiamo tutti dall’homo sapiens sapiens, abbiamo tutti la stessa origine, apparteniamo tutti alla stessa specie da 40mila anni. Condividiamo le stesse radici, è inscritto nel nostro dna il nostro destino comune, che un destino che dice pace. Proprio l’alterità, il volto dell’altro definisce la nostra identità».
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