«Così ho fatto volare l’Aermacchi MB 326»
Il reggiano Renzo Catellani racconta il suo museo volante
REGGIO EMILIA. Tra i tanti tesori nascosti di Reggio Emilia, c'è anche un museo volante. Un luogo, cioè, dove sono conservati degli aerei storici, restaurati e in grado di volare. L'uomo che ha recuperato questi velivoli e, pezzo dopo pezzo, con estrema precisione e passione, li ha ricostruiti riportandoli a nuova vita, è l'imprenditore 50enne Renzo Catellani. L'amore per il volo e gli aerei militari, però, non l'ha spinto solo a collezionare esemplari rari: Catellani è riuscito a far volare l'unico Aermacchi MB 326 esistente e in attività, non solo in Italia ma in tutto il mondo, guadagnandosi così l'importante premio Phénix della Fai (Fédération Aéronautique Internationale).
«Abbiamo portato in alto il nostro Tricolore, il nostro lavoro e il nostro sacrificio», ha commentato Catellani dopo essere stato premiato e aver volato, tra l'altro, con le Frecce Tricolore. Sì, perché non è stato affatto facile trasformare la carcassa dell'Aermacchi MB 326 - abbandonato in una sorta di "sfasciacarrozze" per oltre 20 anni - in un velivolo perfettamente funzionante. «Dovendo volare bisogna rispettare dettami tecnici che non si possono in alcun modo bypassare - conferma Renzo Catellani, vicepresidente di AereoClub Reggio Emilia - e dunque ricostruire i pezzi mancanti o non funzionanti con materiale e tecnologia all'avanguardia. Se si vuole ricostruire un modello museale, un velivolo cioè che starà sempre a terra, si può fare quello che si vuole, ma per librarsi in aria occorre garantire la sicurezza della macchina, sia per i piloti che guideranno l'aereo, sia per chi sta a terra, sia per la salvaguardia storica del velivolo».
Quando è nata la sua passione per gli aeroplani?
«Non ha una data di nascita precisa. Pur non avendo nessun pilota in famiglia, ho sempre subìto il fascino degli aeroplani fin da quando ero bambino. Collezionavo aeroplanini di plastica e i 104 che sfrecciavano in volo tattico sopra casa mia, a pochi metri da terra, mi facevano balzare alla finestra e sperare, osservandoli, che un giorno avrei volato anch'io. E così è stato».
E dai modellini da colorare è passato agli esemplari veri...
«Per arrivare al pezzo originale è passata tanta acqua sotto i ponti, ma la passione per gli aerei militari è sempre la stessa di quand'ero bambino».
Come mai non per i civili?
«Intanto perché ho un trascorso nell'esercito: ho preso il brevetto di pilota di volo a vela nel 1984 a Novi Ligure, proprio mentre svolgevo il corso da Ufficiale di complemento. E poi perché i velivoli e i mezzi delle forze armate rappresentano sempre il meglio della tecnologia di quel momento. Di solito è il civile a mutuare dal militare, non viceversa».
Nel "VolaFenice Flying Museum", all'aeroporto di Reggio Emilia, quanti aerei ci sono al momento?
«Un Mudry CAP10B, un Jet Provost MkIIIA (ex Royal Air Force), un Cessna L19 O-1E "Bird Dog", un Aermacchi MB326 "E" in condizioni di volo, oltre a un Saiman 202, un Fiat G91 ed un MB-326 "K" in restauro».
Che differenza c'è tra l'uno e l'altro?
«Il CAP 10B è uno dei pochi aerei acrobatici con i posti affiancati, per cui anche l'attività di volo è più istruttiva perché fatta a fianco del pilota e non in tandem come negli altri. Questo modello è stato riportato ai colori originali del gruppo acrobatico dell'Armée dell'Air France che lo usava per l'addestramento dei propri piloti. Posti di pilotaggio affiancati anche nel Jet Provost, usato come piattaforma di addestramento di base della RAF per lungo tempo, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Anche questo è stato riportato alla livrea originale. Il Cessna L19, per la sua ampia vetratura, la capacità di volare a bassa velocità e la possibilità di atterrare e decollare in brevi spazi, era usato dall'esercito italiano negli anni Cinquanta per osservazioni e rilevazioni fotografiche aeree permesse. L'Aermacchi Mb326 (detto macchino), riportato alla livrea originale "diavoli rossi", è stato l'addestratore jet basico dell'aeronautica militare italiana per molti anni prima dell'avvento del 339».
Ma oltre a questi velivoli, riportati allo splendore di un tempo, ci sono anche altri cimeli recuperati dalle loro "ceneri" come la mitologica araba fenice...
«Sì, a Parma ho aperto il piccolo museo dell'Araba Fenice, un luogo dove rivivono gli uomini e i mezzi che hanno fatto la storia d'Italia. Si va dal 1871, anno in cui le forze armate italiane hanno messo la stelletta sulle giubbe, al 1945. Per la parte aeronautica, invece, si va dalla Seconda guerra mondiale agli anni Ottanta».
Dopo aver vinto il premio Phénix, per il recupero dell'Aermacchi MB 326, qual è il suo prossimo obiettivo?
«Più che un obiettivo si tratta di un sogno: il recupero del trimotore Savoia Marchetti 79, anche detto "Gobbo volante" perché a causa della torretta che aveva sul dorso, la sua sagoma era simile a quella di un gobbo».
Perché sarebbe un sogno restaurarlo?
«È un aeroplano a cui sono legato fin da quando ero bambino, per le storie di chi ci ha volato sopra e perché era un mezzo della Regia Aeronautica. Il Savoia Marchetti 79 ha vinto i principali trofei da civile negli anni Trenta, e poi è stato convertito a militare. Oggi ne esistono solo due esemplari non volanti, uno si trova a Roma e l'altro a Trento. Io vorrei recuperare i resti di un paio di esemplari, già geolocalizzati, e ricostruire un terzo esemplare in grado di volare».
Dove si trovano questi resti?
«Purtroppo nel deserto libico, che al momento non è un luogo molto tranquillo. Ma sono fiducioso: appena le acque si saranno calmate andremo a recuperare le carcasse e, grazie al mio staff VolaFenice, le useremo per far tornare in cielo il "Gobbo volante"».
Quanti anni pensa che ci vorranno?
«Il mio desiderio è quello di far volare il Savoia Marchetti 79 nel 2023, in occasione del centenario dell'Aeronautica militare con cui peraltro stiamo collaborando. Abbiamo anche già iniziato a parlare con alcune aziende che potrebbero essere interessate a questo progetto di portata planetaria. Sarebbe un modo meraviglioso per ricordare e rendere omaggio non solo agli equipaggi che si sono sacrificati facendo il loro dovere, ma anche agli impareggiabili tecnici che avevano lavorato alla sua costruzione».
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