Minori in affido: le famiglie reggiane prime in regione
Reggio a quota 258 è la provincia più accogliente Sassi: «Da noi solo una minoranza è affidata alle comunità»
REGGIO EMILIA. In Emilia Romagna l’affido non decolla. Ma a Reggio sì. Lo dicono i dati usciti dal convegno “A braccia aperte” che si è tenuto venerdì in Regione a Bologna. Lo conferma Matteo Sassi, vice sindaco e assessore al Welfare. E’ Reggio, innanzitutto, la provincia che accoglie il maggior numero di bambini e ragazzi in affido (258) contro i 231 di Modena e i 171 di Bologna. Ma soprattutto, dei 258 affidi reggiani, per meno di un centinaio si è dovuti ricorrere alla comunità dal momento che nella maggior parte dei casi si tratta di affidi in famiglia.
Perché è proprio questa l’anomalia emersa dai dati resi noti durante il convegno in Regione: «In Emilia Romagna - ha detto Elisabetta Gualmini, vicepresidente della Regione e assessore al Welfare - abbiamo un numero di affidi familiari inferiore rispetto ad altre regioni in quanto prevalgono quelli in comunità. Questo ci mette su un piano di diversità rispetto alla legge nazionale, che prevede invece di privilegiare l’affido in famiglia, possibilmente con minori, in secondo luogo a persone singole e solo in terzo luogo alle strutture residenziali. «La nostra proposta - ha concluso Gualmini - è di rivedere le norme regionali e armonizzarle con quelle nazionali e di altre regioni. In questo modo e anche tramite altre iniziative vogliamo dare la spinta all’affido familiare, senza continuare a promuoverlo solo a parole».
«La rete dell’affido - conferma Matteo Sassi - così come quella delle famiglie rappresenta un punto di forza del nostro welfare. E questo per diversi fattori: a partire da una storia, quella reggiana, che si basa su una cultura dell’accoglienza e della partecipazione attiva, per arrivare all’assoluto valore dei nostri servizi. La relazione con le famiglie affidatarie passa attraverso un servizio pubblico nel quale vengono coinvolti esperti, psicologi, assistenti sociali perché con quelle stesse famiglie è necessario dialogare oltre che mettere in campo un lavoro di formazione indispensabile. E’ questo che fa la differenza: la parola “welfare” finisce di essere un termine astratto quando diventa un lavoro di rete che non solo è finalizzato a rendere le comunità sociali affidabili e credibili ma mira anche ad attivare all’interno della società delle risorse, come possono essere in questo caso le famiglie affidatarie, in grado di fare rete».
Detto questo, Sassi sottolinea come l’affido in comunità non vada in ogni caso demonizzato: «Lo dice la legge ma lo sostengono anche gli psicologi: la soluzione primaria è l’affido in famiglia. Ma non è matematico che un bambino affidato a una comunità abbia meno possibilità di creare rapporti affettivi e di conseguenza avere una crescita meno serena. Non è un caso se spesso capita di affidare un bambino a una famiglia per poi essere costretti a cercare altre soluzioni magari perché quella famiglia non è funzionale al caso specifico: e allora si passa o a prendere in considerazione altre famiglie o a scegliere la comunità. C’è poi da considerare che esiste un giudice dei minori il quale può decidere che per motivi di sicurezza o di opportunità l’affidamento deve per forza avvenire fuori provincia o addirittura fuori regione, e a questo punto tanto vale prendere in considerazione la scelta della comunità».
Non secondario è il tema economico: «Se da un lato la legge ci dice precisamente qual è la scelta che deve essere considerare prioritaria, anche sul piano della gestione delle risorse l’affido in famiglia rappresenta un notevole risparmio rispetto alla comunità dove un ragazzo ci può costare fino a tremila euro. In famiglia la spesa si riduce a un terzo o addirittura un quarto».
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