Pistole bloccate a Iaquinta «Corro rischi per il calcio»
In aula l’accusa legge le motivazioni sul porto d’armi avanzate dall’ex juventino Il presidente Caruso replica: «Allora tutti i calciatori dovrebbero essere armati»
REGGIO EMILIA. La perquisizione dei carabinieri nella villa reggiolese e negli uffici dell’imprenditore edile d’origine cutrese Giuseppe Iaquinta – culminata il 2 febbraio 2015 nel sequestro di due pistole e non poche cartucce – è stata ieri al centro del maxi processo Aemilia in due momenti differenti.
In mattinata il maresciallo Marcello Cotza è entrato nei particolari della perquisizione. E mentre parla il testimone, Iaquinta senior (il figlio non è presente) non ha fatto altro che scuotere nervosamente la testa in segno di dissenso. Nella villa – ha spiegato il maresciallo – erano state trovate delle cartucce sia nel soggiorno che in camera da letto, mentre aprendo la cassaforte era spuntata una busta contenente due pistole ed altre cartucce». Il caricatore di una pistola ed ulteriori cartucce erano state trovate negli uffici della ditta edile. «Le armi risultavano detenute dal figlio Vincenzo per difesa personale – ha rimarcato l’investigatore – ma aveva smarrito il porto d’armi due anni prima e dopo la denuncia non ne aveva più chiesto copia». Ma quelle armi non potevano essere detenute dal padre Giuseppe, già raggiunto da uno specifico divieto sul tema contenuto in un’interdittiva antimafia. Nel pomeriggio il brigadiere Cristiano Veroli ha letto le motivazioni con cui l’allora attaccante juventino Vincenzo Iaquinta aveva chiesto il porto d’armi: «Sono un calciatore professionista – scrisse – mi reco in varie città per le partite e rientro in tarda serata. Sono esposto a rischi e più volte sottoposto a minacce da parte di fanatici e malintenzionati». Motivi su cui si è soffermato il presidente Francesco Caruso, a mo’ di battuta: « Allora i calciatori dovrebbero essere tutti armati...».
L’ex calciatore non denunciò lo spostamento delle pistole ed è perciò finito sotto processo.