Armi, fu scontro fra prefetto e questore
Dalle testimonianze di tre poliziotte emerge il braccio di ferro fra la De Miro e Perucatti sulle concessioni a Muto e Paolini
REGGIO EMILIA. Ancora le “frizioni” fra la prefettura e la questura sul rinnovo nonché il rilascio del porto d’armi, con un inquietante filone comune, cioè «erano tutti cittadini calabresi».
Problemi che risuonano nell’aula bunker di Aemilia, come già anticipato il giorno prima da Guglielmo Battisti (che guida la squadra mobile a Reggio). Stavolta a testimoniare sono tre funzionarie della polizia amministrativa operative in questura – Maria Caione, Lucia Surace ed Orietta Giacomini – e la sintesi è di quelle non indifferenti: «Un braccio di ferro fra il prefetto Antonella De Miro e il questore Francesco Perucatti». Visioni diametralmente opposte, specie sui permessi concessi ad Antonio Muto (classe 1955) ed Alfonso Paolini, entrambi imputati al maxi processo di Reggio. La poliziotta Caione è stata chiara in aula su qual era – ai tempi – la posizione del prefetto De Miro: «Voleva che il questore scrivesse parere contrario al rinnovo. Ci furono scambi di note facendo supplementi istruttori più approfonditi della norma, scrivendo anche alla questura di Crotone, ai carabinieri di Cutro, e chiedendo valutazioni alla squadra mobile per raccogliere ulteriori elementi. Ma Perucatti era di parere diverso». Posizione del questore nemmeno scalfita – ha sottolineato Caione – da «un ulteriore sollecito da parte della prefettura, che segnalava possibili collegamenti con ambienti mafiosi, da valutare». Emerge anche che sulla pratica di Muto c’era un appunto scritto a mano (mostrato dai monitor in aula, ndr) con la scritta «non ha nulla di nuovo rispetto al precedente rinnovo». Secondo la poliziotta dagli accertamenti svolti in questura non «emersero i collegamenti sospetti segnalati dalla prefettura». Sul punto Giacomini aggiunge: «Il dirigente aveva comunque messo “si rifiuti” sulla pratica, poi invece tornò con una nuova decretazione, una volta sentito il questore, con la scritta “si rinnovi”». E la prima dicitura? «Sbianchettata».
Non meno delicata la testimonianza della prima vittima – minacce ed usura le accuse nel caso specifico – che viene sentita nel dibattimento. E’ un bresciano 48enne che tira in ballo due imputati: Salvatore Colacino e Pierino Vetere. «Ho conosciuto Vetere circa 12 anni fa, quando ero imprenditore edile – inizia a spiegare – e lui forniva manodopera. Dovevo fare alcuni lavori e ho chiesto a Vetere di occuparsi della posa dei pavimenti». Ma per l’imprenditore sopraggiungono delle difficoltà economiche così gli viene presentato dallo stesso Vetere «l’amico e compaesano Colacino, che mi avrebbe potuto aiutare con il denaro». Passa poco tempo e «Colacino mi ha prestato 20mila euro in contanti, a patto che gliene restituissi 30mila in due settimane. E così ho fatto». Ma con i prestiti non è finita qui: «Colacino mi ha dato poi 90mila euro, tra contanti e assegni. Glieli avrei dovuti restituire in 15 giorni, con 30mila euro di interessi. Ma quelli non sono riuscito a darglieli».
Prestiti a tassi astronomici e quando l’imprenditore di soldi non ne dà più iniziano pressioni e minacce: «Colacino una volta è salito sulla mia auto – rimarca il teste – e mi ha costretto a fermarmi. “Se non mi porti i soldi in breve tempo la cosa non finisce bene... Vado da tuo padre e dalla tua famiglia”, mi diceva. A Cremona arriva anche l’aggressione, con tanto di picconata al 48enne: ««Ero sul ciglio della strada assieme a un socio collaboratore di Colacino, con cui dovevo firmare alcune carte. All’improvviso arrivano due uomini in moto a viso coperto e mi danno un colpo in testa. Poi scappano coprendo la targa. Mentre fuggono uno di loro mi dice “Devi restituire i soldi a chi te li ha prestati”». Non molto dopo Colacino e Vetere venivano arrestati, mentre l’imprenditore era finito all’ospedale.