Processo Aemilia, gli imprenditori reggiani e i servizi offerti dal clan

di Jacopo Della Porta
Processo Aemilia, gli imprenditori reggiani e i servizi offerti dal clan

Reggio Emilia: alcune imprese emiliane hanno utilizzato quelle cutresi per costituirsi fondi neri, è il caso della Star Gres di Casalgrande

22 luglio 2016
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REGGIO EMILIA. Aziende emiliane aggredite dalla mafia o aziende emiliane che hanno più o meno consapevolmente aperto le porte alla malavita? Alcune delle vicende evidenziate dall’inchiesta Aemilia mostrano come questa ambiguità non sia sempre facilmente risolvibile. Un caso esemplare è quello della Star Gres di Casalgrande, dell’imprenditore reggiano Francesco Bonacini, che nel 2012 aveva 25-30 dipendenti, e si occupava di levigature di mattonelle e compravendita delle stesse. Secondo gli investigatori Bonacini è una vittima di usura: era in crisi, i presunti appartenenti al clan lo hanno finanziato e lui ha restituito il denaro con tassi anche del 300%.

Ieri in aula è stata ascoltata l’ex impiegata amministrativa della Star Gres, Alessandra Stefani, che ha raccontato dei rapporti tra il suo ex datore di lavoro e alcuni imputati, tra cui Gianni Floro Vito e Carmine Belfiore.

La testimone ha raccontato di come sostanzialmente la Star Gres si avvalesse dei cutresi per costituire fondi neri per pagare gli straordinari ai dipendenti, e già questo fatto mette in luce che l’azienda non fosse proprio in crisi. Questa la modalità per generare una contabilità parallela: la Immobiliare Tre di Floro Vito emetteva false fatture per lavori di manutenzione mai eseguiti e la Star Gres provvedeva a saldarle tramite bonifico. Dopo due o tre giorni gli imputati restituivano i soldi in contanti trattenendo per sé l’Iva (Iva che poi queste aziende non versavano e in qualche modo rappresentava la loro commissione).

L’ipotesi accusatoria è che Bonacini sia stato vittima di usura: avrebbe ricevuto 110mila euro e restituito 160mila, anche tramite cambiali. Gli avvocati difensori di Belfiore, Carmen Pisanello, e di Floro Vito, Stefano Vezzadini e Stella Pancari, con le loro domande alla testimone hanno fatto emergere come il denaro ricevuto in nero servisse per il pagamento degli straordinari ed altre operazioni di cui l’azienda non voleva restasse traccia. Tra l’altro non sono emerse minacce o uno stato di soggezione tra la presunta vittima e gli imputati. L’imprenditore a settembre potrà dare spiegazioni, sempre che non si avvalga della facoltà di non rispondere. Quando venne ascoltato in fase d’indagine disse che la sua azienda nel 2012 era in gravi difficoltà economiche. Tanto che alla fine la società si è scissa in due e un ramo d’azienda è stato ceduto. Per i difensori quell’operazione, alla quale hanno collaborato le imprese nell’orbita dell’imprenditore cutrese Pino Giglio, era un tentativo disperato per mettere l’azienda al riparo dai creditori. L’azienda, passata in mano a un prestanome di Giglio, è stata infine sequestrata e poi è fallita.