Dentro le Reggiane con i fantasmi in fuga dal freddo
Le ex Officine sono il rifugio di decine di clochard e disperati Vivono nelle strutture abbandonate, tra falò e fumi tossici
REGGIO EMILIA. «Quanti siamo? Di preciso non lo so, cinque stanno di sopra, altri cinque là, molti vengono solo di notte e spariscono il giorno dopo». Eduard Osei ha 54 anni, viene dal Ghana, ed è uno degli abitanti delle ex Officine Reggiane. Non possiede nulla se non il suo cappotto, che tiene stretto a sé come il tesoro più prezioso, un materasso logoro e delle coperte raccattate nell’immondizia durante le vacanze di Natale. Poco, quasi nulla, ma il necessario per sopravvivere alle lunghe e freddissime notti di gennaio. Quando, mentre i reggiani si scaldano nei loro appartamenti, lui e altre decine di disperati trovano riparo fra i graffiti e i calcinacci delle ex Officine.
Dei fantasmi, dimenticati dalla città da mesi, anni, da sempre. Uomini e donne condannati giorno dopo giorno alla sopravvivenza.
Ma per chi deve lottare con il gelo e la fame questo non è un problema, la priorità è resistere altre 24 ore. Persone che spesso hanno perso tutto da un momento all’altro, trovandosi nella necessità di trovare un tetto sulla testa. E Osei, che per 24 anni ha vissuto a Vicenza, ha trovato rifugio in uno dei tanti capannoni diroccati delle Reggiane.
L’entrata della piccola stanza, in cui abita da tre mesi assieme a un altro ragazzo nigeriano, è coperta grossolanamente con dei pannelli di cartone in cui è stato lasciato un buco di qualche centimetro. «Quello – ci spiega mentre sposta i cartoni per mostrarci la sua “casa” – serve per controllare se fuori c’è qualcuno. Non tutti vengono qui solo per salvarsi dal gelo, si deve essere prudenti».
Dentro, nel fortino che dà riparo ai due senzatetto, due divani distrutti dal tempo e dalle tarme sono appoggiati a una lunga parete annerita mentre, in un angolo, è stato allestito un piccolo falò. Il freddo è pungente, penetra nelle ossa, e da alcuni grossi fori nelle mura soffiano degli spifferi che portano i rumori del grosso cantiere da 35 milioni di euro che procede, ignaro di tutto, pochi metri più in là. «Cuciniamo quello che riusciamo a trovare – continua Osei mentre ci porta verso la “camera da letto” – per lo più resti di pesce o patate».
Per accendere il fuoco, invece, usano qualunque tipo di legna, e non importa se potrebbe essere tossica. I materassi sono gelosamente custoditi in una piccola stanzetta adiacente alla sala, chiusa ermeticamente da una delle poche porte dei capannoni che sono sopravvissute. L’odore di muffa e di bruciato impregna ogni cosa, e non riusciamo a resistere più di pochi minuti. Ma se non altro lì dentro fa meno freddo e quando fuori si raggiungono i -10 gradi sotto zero è questa l’unica cosa che conta.
Altri senzatetto, ci spiega Osei indicandoci il soffitto annerito dai fumi, alloggiano al piano di sopra. Saranno una decina e di giorno girano per la città, unica traccia della loro presenza sono i panni appesi dai buchi nelle pareti, lì dove un tempo c’erano delle finestre. Nel capannone di fianco, invece, vive una ragazza marocchina, ma non è possibile entrare. In questa sorta di divisione territoriale degli spazi, i confini sono l’unica legge che conta. “Tu non invadi la mia zona e io rispetto la tua”, anche perché i disperati non sono le uniche persone che abitano le ex Officine. Spacciatori e tossici di ogni età, dai 15 ai 70 anni, usano le sale per soddisfare le loro dipendenze. Altri fantasmi che affollano le Reggiane, invisibili per scelta ma attenti agli estranei. Tanto che, mentre usciamo, una vedetta si affaccia per controllare che ce ne siamo andati davvero.
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