«Sarcone fu coinvolto in due omicidi»

di Tiziano Soresina

Il pentito Cortese si riferisce ai delitti di Vasapollo e Ruggiero del ’92, poi parla di Bellini: «Tentai più volte di ucciderlo»

10 febbraio 2017
3 MINUTI DI LETTURA





REGGIO EMILIA. Dietro al paravento e con due agenti della scorta al fianco, il pentito Angelo Salvatore Cortese parla al maxi processo Aemilia di omicidi («Ne ho commessi otto») con la facilità di chi beve un bicchier d’acqua, “disegna” le gerarchie nel clan Grande Aracri in Emilia («Dal 2005 al 2007 ero come il prezzemolo: rapine, estorsioni, recupero-crediti e traffici di cocaina, poi dopo l’arresto ho cambiato vita, iniziando a collaborare dal 2008»).

Spiega subito che il boss Nicolino Grande Aracri anche a Reggio è sempre stato il punto di riferimento a cui rendere conto di tutto («Decideva lui chi doveva vivere o chi doveva morire»), con la sottolineatura a tinte cupe sulla pace in atto, dopo tanti di guerra sanguinosa, fra le cosche Nicoscia («I Grande Aracri sono loro alleati») e Arena: «So come ragionano, è una pace provvisoria...».

E mentre ripercorre la stagione ndranghetista piena di delitti a cavallo fra gli anni Novante e i primi Duemila, il collaboratore di giustizia dice che Nicolino Sarcone (condannato a 15 anni di carcere nell’udienza preliminare di Aemilia ) avrebbe avuto un ruolo in due omicidi. In primis sarebbe stato presente all’omicidio di Nicola Vasapollo a Reggio (il 21 settembre ’92) che quel giorno aprì la porta solo perché vide la presenza di Sarcone. Poi l’uccisione di Giuseppe Ruggiero a Brescello (il 22 ottobre ’92): Sarcone avrebbe portato dalla Calabria le tre divise da carabiniere poi usate dal gruppo di fuoco per ingannare la vittima e farla fuori. Erano gli anni pieni di morti ammazzati in cui la leadership del clan Dragone era stata messa in discussione dalla scissione operata da Nicolino Grande Aracri («Nel ’90 mi unii a loro» precisa il pentito), inoltre a Reggio si era formato un gruppo che voleva essere autonomo: «Di quel gruppo ne faceva parte anche Antonio Valerio detto “Pulitino” – entra nel merito Cortese – ma che poi si era buttato con noi, prendendo parte come autista all’omicidio di Giuseppe Ruggiero». Sempre relativamente a quel gruppo il pentito parla del killer Paolo Bellini, perché tentò più volte di farlo fuori. «Una volta diedi a Valerio una pistola con silenziatore e un sacco della spazzatura, dicendogli di uccidere Bellini e poi metterlo nel sacco che poi avremmo fatto sparire il corpo. Ma non ci riuscì. Un’altra volta Bellini non si presentò all’appuntamento con la donna di un suo socio e l’appostamento andò in fumo. Anche la foto di Bellini che mandammo ai suoi rifornitori per lo spaccio di cocaina di Milano non servì, l’avrebbero ammazzato ma lui non si fece più vivo con loro». Parlando poi dei suoi trascorsi reggiani, il pentito afferma che si era meravigliato del tenore di vita raggiunto dai fratelli Muto e da Giuseppe “Pino” Giglio, molto superiore a quando vivevano a Cutro.

«Erano molto ricchi: camion, ville. Rimasi sorpreso. Con il lavoro affari veri non ne fai, solo con gli illeciti. I Muto erano dei “bancomat viventi”, per stare tranquilli si erano messi a disposizione della ’ndrangheta, pagavano ma facevano anche affari». Nei suoi racconti mafiosi reggiani anche l’esistenza di un gruppo di fuoco affidabile e pronto ad agire. Un romanzo criminale.