«La ’ndrangheta è un male incurabile»

di Enrico Lorenzo Tidona
«La ’ndrangheta è un male incurabile»

Cortese, braccio destro di Grande Aracri: «Basta un sospetto per morire. Mi sono innamorato e sono uscito da quel fango»

15 febbraio 2017
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REGGIO EMILIA. «La ’ndrangheta è un male incurabile» ma «mi sono pentito perché ho conosciuto la mia attuale compagna e mi sono innamorato». Angelo Salvatore Cortese, quando parla, mette dei punti fermi nella storia della ’ndrangheta calabrese e nell’ascesa a suon di omicidi di Nicolino Grande Aracri, il boss della ’ndrina di Cutro del quale è stato il braccio destro. «Facevo parte del suo gruppo di fuoco» ha ribadito ieri il pentito più ficcante della mala cutrese attiva a Reggio Emilia. Un uomo che ha ammesso di aver ucciso otto persone in nome e per conto del boss. Ma alla sua seconda udienza nel processo Aemilia ha condito i racconti con pezzi di vita privata. L’amore per la compagna sarebbe stato lo slancio definitivo – ma non certo l’unico – per uscire da 25 anni di ’ndrangheta. «Volevo uscire da quel fango» ha detto Cortese davanti alla corte del maxi processo contro il radicamento della ’ndrangheta in Emilia, sollecitato dalle domande degli avvocati difensori delle decine di imputati rinchiusi dietro di lui, dentro le gabbie di ferro e guardati a vista. «Per me la ’ndrangheta è un male incurabile – dice – quando entrai, nel 1985, per me che ero ragazzo era come se avessi vinto il superenalotto. Pensavo ci fossero valori come la fratellanza, l’onestà tra di noi. Poi con l’andare del tempo ho visto che non era vero niente».

Cortese si pentì per scappare da un clima costante di sospetto alimentato con delazioni (le cosiddette «tragedie» nel gergo della ’ndrina) e alleanze a geometria variabile (dette «false politiche»). «In 25 anni ne ho viste di tutti i colori e avendo vissuto la ’ndrangheta sulla mia pelle ho deciso di uscire».

La leva sarebbe stato il rapporto con la nuova compagna e il clima sempre più soffocante e pericoloso. «Ti uccidono invitandoti a cena, a mangiare pesce, il capretto – racconta Cortese – Ho visto cose sporche, sono rimasto deluso. Così come l’omicidio di Antonio Macrì e Rosario Sorrentino che erano persone che hanno dato la vita a Nicolino Grande Aracri, che hanno sparato con me. Una volta abbiamo ucciso un macellaio, Lazzaro, quello di Steccato. E poi alla fine rischi perché pensano che eri vicino a Dragone». Le motivazioni, come si intuisce, sono molte e alcune terra terra, legate anche ai soldi.

«Non ho collaborato per evitare il carcere o perché ho una condanna ma perché volevo andarmene. Non c’è solidarietà, non ci si fida l’uno dell’altro. Come quella volta che si fuse la macchina di Nicolino Grande Aracri: l’andammo a prendere e lui si era nascosto nella foresta. Perché a un certo punto non si fidava nemmeno di noi».

Una vita, quella di Cortese, vissuta vendendo droga a chili, regolata da gesti più che da parole. «È meglio non fare domande, vogliono gente che meno capisce e meglio è, perché appena si accorgono che uno vede un po’ più in là, trovano il modo di farlo fuori con le tragedie». Il pentito parla con riferimenti e date precisi, sbagliando poche virgole. Ma gli avvocati delle difesa lo mettono alle strette sul denaro e sui rancori eventuali legati al carcere e ai soldi. «Non ho alcun rancore verso Nicolino Grande Araci» afferma. Ma l’omicidio dell’amico d’infanzia, Antonio Macrì, ha segnato Cortese durante la faida cutrese tra i Dragone e i Grande Aracri. «Ero anche imparentato con lui – dice il pentito – siamo cresciuti insieme e con noi Salvatore De Luca o Rosario Sorrentino. Poi Macrì sposò una delle sorelle di Raffaele Dragone. Un giorno venne da me in negozio, mi disse che voleva incontrare Nicolino Grande Aracri. Gli dissi “Quando vai da Grande Aracri non ci andare mai da solo”. Macrì ha commesso quella leggerezza. Parcheggiò la sua Bmw 525 dai parenti, i Tallarico. Poi proseguì con la vespetta. Nel magazzino c’erano ad aspettarlo Salvatore Blasco e Vito Martino con le pistole col silenziatore. Poi l’hanno fatto sparire e non si è mai trovato il corpo».

Il testimone ha infine visionato alcune fotografie, riconoscendo Giuseppe Iaquinta e affermando: «So soltanto che erano imprenditori vicini ai Grande Aracri».

Mentre di Pasquale Brescia ha detto: «È in rapporto diretto con i vertici del clan. Reinvestiva i soldi di Nicolino Grande Aracri in case, terreni e qualsiasi cosa potesse capitare».