l’udienza
Il tribunale non chiude per ferie «Processo complesso e lungo»
REGGIO EMILIA. Il processo Aemilia è complesso, ha un numero di imputati alto, 147, ai quali si sono aggiunti quelli di Aemlia bis, un numero testimoni elevato e «uno smisurato numero delle...
02 agosto 2017
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REGGIO EMILIA. Il processo Aemilia è complesso, ha un numero di imputati alto, 147, ai quali si sono aggiunti quelli di Aemlia bis, un numero testimoni elevato e «uno smisurato numero delle intercettazioni». Tutti motivi che hanno portato la corte presieduta dal giudice Francesco Caruso a non sospendere l’attività istruttoria nel periodo feriale. Le udienze sono state fissate fino al 10 agosto ma c’è chi userà la successiva pausa estiva - giudici in primis - per studiarsi l’immensa mole di carte. Un’ordinanza preliminare letta ieri alla quale è seguita quella con la quale sono stati convocati il 5 settembre i periti incaricati di trascrivere le intercettazioni per indicare un termine finale per il deposito del lavoro monstre che gli è stato affidato.
I pm hanno poi spiegato i nuovi intrecci giudiziari che vorrebbero portare nel processo attraverso un’integrazione della lista testi.
Sempre durante l’udienza di ieri è stato ascoltato Carmine d’Urso come teste a difesa degli imputati Antonio Muto (1978) e Rosario Arcuri. Quest’ultimo, secondo l’accusa di estorsione mossa dalla procura, emerge relativamente all’incarico affidato a Muto di recuperare la somma di 470.000 euro da D’Urso. Muto avrebbe delegato a sua volta Francesco Viti che, unitamente a suoi emissari non meglio identificati, avrebbe minacciato D’Urso e la sua famiglia, portandogli via due autovetture e recuperando in ultimo l’intera somma. Azione intimidatoria condivisa dallo stesso Arcuri. Ieri, però, D’Urso ha sconfessato in toto la tesi accusatoria mossa dalla procura antimafia. «Non ho mai parlato con Muto e Arcuri lo conosco perché avevamo un appalto a Marano sul Panaro e lavorava lì. Tramite la società di mio fratello ad Arcuri abbiamo dato alcuni lavori importanti lì a Marano. Lui poi ha fatto anche la casa a mio fratello. È stato Arcuri a chiedere la prestazione a Muto su Marano. Poi entrambi non sono stati pagati perché la ditta che aveva i lavoro è stata inadempiente con la nostra azienda. Ma non ci sono state pressioni per i pagamenti da Muto o Arcuri. E Viti lavorava con noi, era assunto come autista. E’ tra l’altro mio compaesano, un uomo di fiducia. Non c’era motivo di contrasto». (e.l.t.)
I pm hanno poi spiegato i nuovi intrecci giudiziari che vorrebbero portare nel processo attraverso un’integrazione della lista testi.
Sempre durante l’udienza di ieri è stato ascoltato Carmine d’Urso come teste a difesa degli imputati Antonio Muto (1978) e Rosario Arcuri. Quest’ultimo, secondo l’accusa di estorsione mossa dalla procura, emerge relativamente all’incarico affidato a Muto di recuperare la somma di 470.000 euro da D’Urso. Muto avrebbe delegato a sua volta Francesco Viti che, unitamente a suoi emissari non meglio identificati, avrebbe minacciato D’Urso e la sua famiglia, portandogli via due autovetture e recuperando in ultimo l’intera somma. Azione intimidatoria condivisa dallo stesso Arcuri. Ieri, però, D’Urso ha sconfessato in toto la tesi accusatoria mossa dalla procura antimafia. «Non ho mai parlato con Muto e Arcuri lo conosco perché avevamo un appalto a Marano sul Panaro e lavorava lì. Tramite la società di mio fratello ad Arcuri abbiamo dato alcuni lavori importanti lì a Marano. Lui poi ha fatto anche la casa a mio fratello. È stato Arcuri a chiedere la prestazione a Muto su Marano. Poi entrambi non sono stati pagati perché la ditta che aveva i lavoro è stata inadempiente con la nostra azienda. Ma non ci sono state pressioni per i pagamenti da Muto o Arcuri. E Viti lavorava con noi, era assunto come autista. E’ tra l’altro mio compaesano, un uomo di fiducia. Non c’era motivo di contrasto». (e.l.t.)