«Il clan in azione a Reggio dagli anni ’90»
di Tiziano Soresina
Il pentito Vrenna parla del ruolo di Grande Aracri («Nicolino teneva le fila della ’ndrina») ma anche di Bolognino e Vertinelli
04 agosto 2017
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REGGIO EMILIA. Ben vestito, occhiali a specchio, risposte lapidarie, tranquillo e con la situazione sempre sotto controllo anche davanti ad alcune contestazioni che “elettrizzano” la sua testimonianza.
Modi sicuri e sbrigativi da boss, del resto lui – il crotonese 66enne Giuseppe “Pino” Vrenna – non nasconde certo in aula il suo passato («Sono stato dentro alla ’ndrangheta fin dagli anni Sessanta, avevo raggiunto il grado di trequartino»), con cui dice di aver dato però un taglio netto iniziando a collaborare a fine 2010 («Perché sono diventato un pentito? Mi sono avvicinato alla Chiesa»). Chiamato a deporre dai difensori dell’imputato Michele Bolognino, il collaboratore di giustizia fa capire di saperne davvero tante di cose e le sue parole vengono ovviamente incanalate sull’accusa-chiave del maxi processo, cioè l’associazione ’ndranghetista che la Dda di Bologna ritiene non solo ben radicata in Emilia ma pure con epicentro a Reggio. Sul punto il pentito è prodigo di particolari, indicando come sua fonte primaria direttamente il boss Nicolino Grande Arcari: «Già negli anni Novanta – entra nel merito – c’era un’articolazione di Grande Aracri a Reggio e ne ho notizia sino al 2008. A Cutro comanda Grande Aracri, prima Ciampà e prima ancora Dragone. In Emilia-Romagna il distaccamento è a Reggio Emilia: non so quanti fossero i componenti, di solito in una ’ndrina le persone devono essere più di cinque, comunque la famiglia Vrenna (il riferimento è al clan crotonese Vrenna-Bonaventura-Corigliano, di cui è stato capobastone, ndr) era stata informata dell’operare di questa ’ndrina e da quanto so io, Nicolino Grande Aracri ne dirigeva le fila». Poi arrivano i rapporti del pentito con lo stesso Nicolino, da qui lo snocciolare di nomi: «In un appuntamento a casa sua, a cui era presente anche mio cognato Paolo Corigliano, fu Grande Aracri a parlarmi di alcuni suoi affiliati: Nicolino Sarcone, Vito Martino, Palmo Vertinelli».Vrenna specifica che con queste tre persone ha avuto a che fare solo con Martino, per poi aggiungere di aver conosciuto in carcere Ernesto Grande Aracri (fratello di Nicolino, ndr) e per un mese negli anni Novanta – sempre in cella – Gianluigi Sarcone (imputato di Aemilia) di cui ricorda «che chiedeva di affiliarsi». Gli viene contestato – dall’avvocato Alessio Fornaciari – che di Palmo Vertinelli non ne aveva parlato come affiliato durante l’interrogatorio reso davanti alla Dda il 5 marzo 2012: «Mi è venuto in mente in aula – risponde il pentito – e l’ho detto. Vertinelli era in buonissimi rapporti con Grande Aracri». Su domanda dell’avvocato difensore Francesco Laratta, la testimonianza vira su un altro imputato del maxi processo, cioè Michele Bolognino. «L’ho conosciuto negli anni Novanta nel carcere di Crotone – spiega Vrenna – ed era affiliato dei Menia. Poi ho sentito dire nell’ambiente che Bolognino era andato in carcere a Bologna e una volta uscito faceva l’imprenditore, vicino però alla famiglia di Nicolino Grande Aracri. All’interno del carcere deve avere conosciuto qualcuno». Un “passaggio” dai Menia ai Grande Aracri che viene messo in discussione dall’avvocato Laratta. Invece il collaboratore di giustizia conferma e aggiunge che «da quel momento il riferimento per Bolognino è Grande Aracri». Anche se a fatica conferma che il clan Vrenna-Bonaventura-Corigliano nei primi anni Duemila era operativo con una ’ndrina distaccata in Romagna (Rimini, Riccione, Ravenna ma anche Bologna i territori interessati), come invece ben specificato in precedenza nella sua testimonianza (in avvio d’udienza) da un altro collaboratore di giustizia (il crotonese 44enne Domenico Bumbaca) che specifica d’averne fatto parte. Bumbaca è chiamato a deporre dall’avvocato Antonio Piccolo che difende l’imputato Francesco Scida. «Non conosco Scida, mai avuto a che fare con la cosca di Cutro di cui sapevo solo che Nicolino Grande Aracri era il capo, non so se a Reggio operavano delle ’ndrine distaccate dalla casa madre». L’avvocato Piccolo con domande a raffica ne mette in discussione la credibilità e il 44enne si impunta finendo per non rispondere più al difensore, per non parlare delle domande “bocciate” al difensore dalla Corte in una sorta di lungo “corpo a corpo”.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Modi sicuri e sbrigativi da boss, del resto lui – il crotonese 66enne Giuseppe “Pino” Vrenna – non nasconde certo in aula il suo passato («Sono stato dentro alla ’ndrangheta fin dagli anni Sessanta, avevo raggiunto il grado di trequartino»), con cui dice di aver dato però un taglio netto iniziando a collaborare a fine 2010 («Perché sono diventato un pentito? Mi sono avvicinato alla Chiesa»). Chiamato a deporre dai difensori dell’imputato Michele Bolognino, il collaboratore di giustizia fa capire di saperne davvero tante di cose e le sue parole vengono ovviamente incanalate sull’accusa-chiave del maxi processo, cioè l’associazione ’ndranghetista che la Dda di Bologna ritiene non solo ben radicata in Emilia ma pure con epicentro a Reggio. Sul punto il pentito è prodigo di particolari, indicando come sua fonte primaria direttamente il boss Nicolino Grande Arcari: «Già negli anni Novanta – entra nel merito – c’era un’articolazione di Grande Aracri a Reggio e ne ho notizia sino al 2008. A Cutro comanda Grande Aracri, prima Ciampà e prima ancora Dragone. In Emilia-Romagna il distaccamento è a Reggio Emilia: non so quanti fossero i componenti, di solito in una ’ndrina le persone devono essere più di cinque, comunque la famiglia Vrenna (il riferimento è al clan crotonese Vrenna-Bonaventura-Corigliano, di cui è stato capobastone, ndr) era stata informata dell’operare di questa ’ndrina e da quanto so io, Nicolino Grande Aracri ne dirigeva le fila». Poi arrivano i rapporti del pentito con lo stesso Nicolino, da qui lo snocciolare di nomi: «In un appuntamento a casa sua, a cui era presente anche mio cognato Paolo Corigliano, fu Grande Aracri a parlarmi di alcuni suoi affiliati: Nicolino Sarcone, Vito Martino, Palmo Vertinelli».Vrenna specifica che con queste tre persone ha avuto a che fare solo con Martino, per poi aggiungere di aver conosciuto in carcere Ernesto Grande Aracri (fratello di Nicolino, ndr) e per un mese negli anni Novanta – sempre in cella – Gianluigi Sarcone (imputato di Aemilia) di cui ricorda «che chiedeva di affiliarsi». Gli viene contestato – dall’avvocato Alessio Fornaciari – che di Palmo Vertinelli non ne aveva parlato come affiliato durante l’interrogatorio reso davanti alla Dda il 5 marzo 2012: «Mi è venuto in mente in aula – risponde il pentito – e l’ho detto. Vertinelli era in buonissimi rapporti con Grande Aracri». Su domanda dell’avvocato difensore Francesco Laratta, la testimonianza vira su un altro imputato del maxi processo, cioè Michele Bolognino. «L’ho conosciuto negli anni Novanta nel carcere di Crotone – spiega Vrenna – ed era affiliato dei Menia. Poi ho sentito dire nell’ambiente che Bolognino era andato in carcere a Bologna e una volta uscito faceva l’imprenditore, vicino però alla famiglia di Nicolino Grande Aracri. All’interno del carcere deve avere conosciuto qualcuno». Un “passaggio” dai Menia ai Grande Aracri che viene messo in discussione dall’avvocato Laratta. Invece il collaboratore di giustizia conferma e aggiunge che «da quel momento il riferimento per Bolognino è Grande Aracri». Anche se a fatica conferma che il clan Vrenna-Bonaventura-Corigliano nei primi anni Duemila era operativo con una ’ndrina distaccata in Romagna (Rimini, Riccione, Ravenna ma anche Bologna i territori interessati), come invece ben specificato in precedenza nella sua testimonianza (in avvio d’udienza) da un altro collaboratore di giustizia (il crotonese 44enne Domenico Bumbaca) che specifica d’averne fatto parte. Bumbaca è chiamato a deporre dall’avvocato Antonio Piccolo che difende l’imputato Francesco Scida. «Non conosco Scida, mai avuto a che fare con la cosca di Cutro di cui sapevo solo che Nicolino Grande Aracri era il capo, non so se a Reggio operavano delle ’ndrine distaccate dalla casa madre». L’avvocato Piccolo con domande a raffica ne mette in discussione la credibilità e il 44enne si impunta finendo per non rispondere più al difensore, per non parlare delle domande “bocciate” al difensore dalla Corte in una sorta di lungo “corpo a corpo”.
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