«Armi, sfregi e ferimenti nelle celle»
Al via da domani la testimonianza in aula del pentito Valerio, che nei verbali racconta le vendette in carcere fra detenuti
25 settembre 2017
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REGGIO EMILIA . Vendette, alleanze, pestaggi, sfregi, armi artigianali. Ci sono anche dettagli della vita dei detenuti in cella nel racconto di Antonio Valerio, cinquant’anni, imprenditore edile, considerato il super pentito del processo Aemilia, che da domani inizierà la sua deposizione nell’aula speciale allestita nel tribunale di Reggio, dopo essere stato interrogato da giugno a settembre dai pm della Dda di Bologna, Marco Mescolini e Beatrice Ronchi. Un fiume di rivelazioni raccolte in 18 verbali, nei quali Valerio – che si trova in una località segreta – svela i retroscena della ‘ndrangheta a Reggio: una testimonianza che da domani approderà in aula, passando al vaglio degli interrogatori degli stessi pm e dei successivi controinterrogatori delle difese.
Per la testimonianza di Valerio serviranno molte udienze. E, fra i fatti portati alla luce nelle sue dichiarazioni, emergono anche agguati e ferimenti fra detenuti avvenuti nelle carceri di Reggio e della Dozza a Bologna, dove si ripeterebbero dinamiche legate al sodalizio mafioso e dove ogni detenuto farebbe capo ad un gruppo con l’ambizione di imporsi sugli altri. Fra gli episodi sui quali si dovrà far luce, anche l’agguato a Gabriele Valerioti da parte di Gianni Floro Vito nel carcere della Pulce, già oggetto di una relazione della polizia penitenziaria depositata nel processo lo scorso giugno, quando la Dda ha chiesto una perquisizione delle celle per verificare l’eventuale presenza di armi. È in quella circostanza che sono saltati fuori coltelli artigianali realizzati dai detenuti. Nel racconto di Valerio, la lite fra Floro Vito e Valerioti, il più giovane dei detenuti di Aemilia, sarebbe nata su un campo di calcio: un pretesto per fare chiarezza sui rapporti di forza in seno al sodalizio. Floro Vito avrebbe dato una manata in faccia a Valerioti, che avrebbe reagito spingendolo a terra e dandogli una pestata in faccia con le scarpe con i tacchetti, provocandogli ferite sulla guancia e sul collo.
Una scena alla quale lo stesso Valerio avrebbe assistito, proseguita poi con una zuffa e con minacce reciproche tra i due, divisi a fatica dagli altri detenuti. Ma, soprattutto, un episodio con un pesante seguito qualche giorno dopo, quando Floro Vito mostrava ancora i segni dei tacchetti sul volto, considerandoli uno smacco. Di qui l’aggressione a Valerioti, mentre si trovava nel bagno di una cella, da parte dello stesso Gianni Floro Vito e di Antonio Floro Vito. È qui che spunta un coltello artigianale, realizzato con scatolette di lamiera del gas, caduto dalle mani di Gianni Floro Vito durante la colluttazione con Valerioti, che è riuscito a difendersi ricevendo tuttavia un pugno in faccia da Antonio Floro Vito, provocandogli un occhio nero. Il coltello torna quindi nella mani di Gianni Floro Vito, che colpisce in faccia lo stesso Valerioti provocandogli una ferita di 15 centimetri, dalla tempia alla guancia. Uno sfregio che, nel linguaggio della ‘ndrangheta, viene vendicato solo con la morte dell’autore.
In questo caso, Valerio non era direttamente presente alla scena, dove è arrivato solo in un secondo momento, poco prima dell’arrivo delle guardie. Ma avrebbe ricevuto in tempi diversi le confidenze delle tre persone coinvolte, sostenendo che alle guardie sono state raccontate false versioni dell’accaduto, riconducendo le ferite (medicate in infermeria) a lesioni accidentali. A Bologna, invece, nel carcere della Dozza, nel luglio scorso Francesco Frontera è stato sfregiato dal coetaneo Roberto Turrà. In questo caso, secondo il racconto di Valerio – che non era a conoscenza dell’episodio – ruggini e legami fra i due risalirebbero indietro nel tempo. Almeno a prima del 2003, quando Turrà su incarico di Salvatore Arabia avrebbe portato Frontera in un luogo chiamato la Pila di Santo Stefano a Cutro, considerato simbolico per i chiarimenti in fatto di ‘ndrangheta. Un incontro per regolare i conti su un presunto torto di Frontera ai Dragone, nel quale tuttavia Turrà riuscì a portare Arabia e lo stesso Frontera ad un chiarimento senza spargere sangue. In seguito, per vendetta, secondo Valerio Frontera partecipò al tentato omicidio di Salvatore Arabia, considerato un fedelissimo dei Dragone, ai quali da giovane lo stesso Turrà sarebbe stato molto vicino. (e.spa.)
Per la testimonianza di Valerio serviranno molte udienze. E, fra i fatti portati alla luce nelle sue dichiarazioni, emergono anche agguati e ferimenti fra detenuti avvenuti nelle carceri di Reggio e della Dozza a Bologna, dove si ripeterebbero dinamiche legate al sodalizio mafioso e dove ogni detenuto farebbe capo ad un gruppo con l’ambizione di imporsi sugli altri. Fra gli episodi sui quali si dovrà far luce, anche l’agguato a Gabriele Valerioti da parte di Gianni Floro Vito nel carcere della Pulce, già oggetto di una relazione della polizia penitenziaria depositata nel processo lo scorso giugno, quando la Dda ha chiesto una perquisizione delle celle per verificare l’eventuale presenza di armi. È in quella circostanza che sono saltati fuori coltelli artigianali realizzati dai detenuti. Nel racconto di Valerio, la lite fra Floro Vito e Valerioti, il più giovane dei detenuti di Aemilia, sarebbe nata su un campo di calcio: un pretesto per fare chiarezza sui rapporti di forza in seno al sodalizio. Floro Vito avrebbe dato una manata in faccia a Valerioti, che avrebbe reagito spingendolo a terra e dandogli una pestata in faccia con le scarpe con i tacchetti, provocandogli ferite sulla guancia e sul collo.
Una scena alla quale lo stesso Valerio avrebbe assistito, proseguita poi con una zuffa e con minacce reciproche tra i due, divisi a fatica dagli altri detenuti. Ma, soprattutto, un episodio con un pesante seguito qualche giorno dopo, quando Floro Vito mostrava ancora i segni dei tacchetti sul volto, considerandoli uno smacco. Di qui l’aggressione a Valerioti, mentre si trovava nel bagno di una cella, da parte dello stesso Gianni Floro Vito e di Antonio Floro Vito. È qui che spunta un coltello artigianale, realizzato con scatolette di lamiera del gas, caduto dalle mani di Gianni Floro Vito durante la colluttazione con Valerioti, che è riuscito a difendersi ricevendo tuttavia un pugno in faccia da Antonio Floro Vito, provocandogli un occhio nero. Il coltello torna quindi nella mani di Gianni Floro Vito, che colpisce in faccia lo stesso Valerioti provocandogli una ferita di 15 centimetri, dalla tempia alla guancia. Uno sfregio che, nel linguaggio della ‘ndrangheta, viene vendicato solo con la morte dell’autore.
In questo caso, Valerio non era direttamente presente alla scena, dove è arrivato solo in un secondo momento, poco prima dell’arrivo delle guardie. Ma avrebbe ricevuto in tempi diversi le confidenze delle tre persone coinvolte, sostenendo che alle guardie sono state raccontate false versioni dell’accaduto, riconducendo le ferite (medicate in infermeria) a lesioni accidentali. A Bologna, invece, nel carcere della Dozza, nel luglio scorso Francesco Frontera è stato sfregiato dal coetaneo Roberto Turrà. In questo caso, secondo il racconto di Valerio – che non era a conoscenza dell’episodio – ruggini e legami fra i due risalirebbero indietro nel tempo. Almeno a prima del 2003, quando Turrà su incarico di Salvatore Arabia avrebbe portato Frontera in un luogo chiamato la Pila di Santo Stefano a Cutro, considerato simbolico per i chiarimenti in fatto di ‘ndrangheta. Un incontro per regolare i conti su un presunto torto di Frontera ai Dragone, nel quale tuttavia Turrà riuscì a portare Arabia e lo stesso Frontera ad un chiarimento senza spargere sangue. In seguito, per vendetta, secondo Valerio Frontera partecipò al tentato omicidio di Salvatore Arabia, considerato un fedelissimo dei Dragone, ai quali da giovane lo stesso Turrà sarebbe stato molto vicino. (e.spa.)