«Nei cantieri si lavorava come schiavi»

di Enrico Lorenzo Tidona
«Nei cantieri si lavorava come schiavi»

Aemilia, il pentito Muto racconta: operai assunti regolarmente, poi però dovevano restituire Tfr e la quota alla cassa edile

01 dicembre 2017
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REGGIO EMILIA. «Dovevano mettersi una vaschetta che pesava più di 25 chili sulle spalle e scendere per le scale per cinque o sei piani. Si lavorava un po’ da schiavi». Salvatore Muto è un piccolo imprenditore edile diventato collaboratore di giustizia del processo Aemilia, sentito ancora una volta ieri in udienza. Il suo vero lavoro, però, dice di averlo svolto per il suo capo, Francesco Lamanna, colonnello della ’ndrangheta tra Cremona e Mantova, così come per altri sodali del clan che facevano soldi anche sfruttando gli operai nei cantieri. Chi veniva assoldato, anche sotto l’egida di ricche e rinomate imprese edili del nord, era formalmente in regola salvo poi dover restituire al clan parte del suo salario: «Si trattava della quota della cassa edile o del trattamento di fine rapporto – racconta Muto – Chi lavorava per noi sapeva quali erano le condizioni, che quei soldi andavano restituiti. Ma c’è stato anche un episodio con degli operai egiziani che si erano presentati al cantiere per chiedere quanto gli era dovuto. Abbiamo sistemato le cose andando a casa loro a Lodi, con minacce e urla, facendogli capire che se si fossero ripresentati ci sarebbero stati problemi seri per loro». Dietro all’ingaggio degli operai c’era un altro imputato del processo, Antonio Floro Vito, che Muto afferma selezionasse la manodopera che lavorò in diverse province e con appalti anche pubblici.

L’udienza è proseguita con lo sfoglio dell’album con le foto dei sodali del clan, sottoposti alla prova del riconoscimento da parte di Muto. Da lì i racconti più disparati su parentele, traffici, fatture false e diversi mancati riconoscimenti da parte del pentito. Secondo Muto, però, il boss Nicolino Grande Aracri e il suo luogotenente Lamanna avevano «molto rispetto» anche per Antonio Valerio, l’altro pentito nel processo.

«Era vicino a Blasco ed era riconosciuto nella nostra associazione» dice in maniera concisa Muto per inquadrare Valerio, su richiesta del presidente del collegio Francesco Caruso. Rispondendo ieri in udienza alle domande del pm Marco Mescolini, Muto si è soffermato su Valerio. Spiegando cioè che «era molto attivo, ha avuto a che fare con tutti» e presenziava alle cene e riunioni in cui si discutevano gli affari del clan.

Inoltre «veniva parecchie volte a relazionarsi con Lamanna sulle vicende di Reggio Emilia». Infatti «era stato battezzato e aveva avuto un grado anche da Lamanna».

Muto porta poi un cognome molto diffuso a Cutro così come a Reggio, sul quale si è espresso: «Esistono diverse razze, cioè famiglie dei Muto» ha detto il collaboratore, elencando i vari rami della rinomata famiglia.

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