«Volevo suicidarmi, non trovai la forza»

di Tiziano Soresina
«Volevo suicidarmi, non trovai la forza»

Drammatica rivelazione di Muto sul suo pentimento: «Ero distrutto, volevo chiudere con la ’ndrangheta, chiesi aiuto al pm»

15 dicembre 2017
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REGGIO EMILIA. Siamo nel pieno del controinterrogatorio quando l’avvocato difensore Pasqualino Miraglia (che tutela gli imputati Vincenzo Mancuso e Pierino Vetere) vuole dal 40enne Salvatore Muto chiarimenti sulle motivazioni che l’hanno portato a diventare collaboratore di giustizia. E qui la voce del pentito s’incrina.

È un momento difficile, perché Muto ammette di essere entrato talmente in crisi – intorno al febbraio 2017 – d’aver pensato al suicidio, non trovando però il coraggio di farla finita: «Quando è morto mio padre già ce l’avevo in testa, ma in carcere ero in una morsa che mi soffocava – spiega con un po’ d’affanno – perché erano tutti lì gli imputati di Aemilia e non potevo dirlo a nessuno che qualcosa in me stava morendo. Non volevo più appartenere a queste persone e ho chiesto aiuto al pm , vuotando il sacco. Il mio timore principale è per la mia famiglia, non mi interessa della mia vita. Il suicidio? Non ho avuto il coraggio di farlo, ma non reggevo più questa cosa».

Dopo questo passaggio drammatico della deposizione, il pentito – sempre rispondendo alle domande dell’avvocato Miraglia – inquadra i due imputati di Aemilia difesi dal legale che lo sta interrogando: «Pierino Vetere quando aveva dei problemi veniva da me e poi riferivo a Lamanna. Una persona riconosciuta come ’ndranghetista, che usufruiva dei capitali della cosca e faceva usura (ma sull’esempio fatto da Muto di persona “cravattata”, giunge la replica del difensore che specifica come Vetere sia stato assolto per quella vicenda, ndr)».

Più sfumate le parole del pentito su Vincenzo Mancuso, comunque ben conosciuto («Abitavamo vicino a Cutro») e con cui Lamanna (di cui il collaboratore di giustizia ne è stato il braccio destro, come ha più volte rimarcato nella deposizione) ha avuto a che fare, anche per dirimere una diatriba economica.

Sempre Muto fa delle precisazioni sulla “locale” ndranghetista di Reggio Emilia: «Nicolino Sarcone non lo si poteva scavalcare, a meno che non lo decidesse Nicolino Grande Aracri. Una volta Roberto Turrà (condannato a 9 anni e mezzo di reclusione nell’Appello di Aemilia, ndr) chiese a Lamanna di poter fare delle operazioni illecite a Reggio Emilia, insomma voleva autonomia. Gli fu risposto che se fossero stati dei problemi ne rispondeva Sarcone a Reggio Emilia».

Il pentito cita quell’esempio per far capire come in ambito ’ndranghetistico le operazioni illegali sui territori richiedono il consenso dei referenti: «Se andavo a Reggio Emilia per un’operazione, Sarcone lo sapeva, e i proventi andavano ripartiti».

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