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Aemilia, la Corte d'appello: "Pagliani tassello essenziale delle cosche"

Aemilia, la Corte d'appello: "Pagliani tassello essenziale delle cosche"

I giudici dell'appello di Bologna hanno notificato le motivazione della sentenza del processo con rito abbreviato, che il 12 settembre aveva in gran parte confermato la decisione del Gup per 60 imputati

27 febbraio 2018
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REGGIO EMILIA  L'ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa, «costituiva un tassello essenziale per l'esecuzione del programma criminale del sodalizio operante in Emilia cui forniva effettivamente e concretamente una cooperazione ben precisa, efficace e consapevole». Lo scrivono i giudici della Corte di appello di Bologna, nella parte della sentenza in cui motivano la decisione di riformare l'assoluzione in primo grado del politico.

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Secondo i giudici, Pagliani «non solo conosceva parte significativa dei sodali, la caratura e caratteristica criminale dei medesimi e l'ideazione da parte degli stessi di un progetto di attacco politico-mediatico alle massime autorità locali», ma «aveva dato il proprio assenso al programma» che prevedeva «di ribellarsi» contro le interdittive emanate nei loro confronti dal prefetto, «contribuendo efficacemente per la propria parte a sdoganare pubblicamente la tesi del gruppo».

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Una holding criminale, una multinazionale del delitto. Così i giudici della Corte di Appello di Bologna definiscono l'associazione 'ndranghetistica al centro del processo Aemilia nelle 1.400 pagine della sentenza in abbreviato, che aveva confermato in gran parte la decisione di primo grado per 60 imputati, con condanne fino a 15 anni.

«Il progressivo innalzamento di livello dell'associazione - si legge - si rendeva ancora più evidente con il sempre più ampio e professionale inserimento dei sodali nel mondo degli affari sino a condurre alla formazione di una vera e propria holding criminale di rilievo internazionale».

In cui «lo spietato e brutale sistema di approccio degli anni '90» cede il posto ad uno «più sottile», con metodi 'mascheratì sotto l'apparenza di un'attività imprenditoriale attiva in vari settori e «a tutto campo» nel mondo dell'edilizia, dei trasporti, dei rifiuti e movimento terra, dei quali il sodalizio calabro-emiliano assumeva in breve tempo il sostanziale monopolio«.

Secondo la sentenza la 'Ndrangheta emiliana è una criminalità organizzata che, nel corso degli anni, «pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacità reattiva e sapeva al contempo operare sempre più a 360 gradi, con una sorprendente abilità mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione». Il gruppo capeggiato da Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni, pur mantenendo un legame con la casa madre calabrese, e in particolare con il boss Nicolino Grande Aracri, aveva «piena autonomia decisionale sugli affari da concludere».

Grande Aracri era infatti sempre informato degli affari trattati al nord o anche all'estero, oltre che uno dei principali se non l'unico finanziatore del business e a lui andava una percentuale dei profitti. Non era tuttavia da lui, osservano i giudici «che dipendeva l'ideazione o la decisione di quali imprese assoggettare in Emilia né di quali occasioni economiche sfruttare o creare».

Al Nord esiste una sorta di borghesia mafiosa. È l'altra conclusione a cui arrivano i giudici della Corte di Appello di Bologna, nella sentenza del processo Aemilia, che il 12 settembre ha in gran parte confermato la decisione del Gup per 60 imputati.

Tra le posizioni modificate rispetto al primo grado c'è quella appunto dell'ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, prima assolto, poi condannato a quattro anni per concorso esterno. Nell'atto si legge infatti che l'organizzazione criminale calabrese radicata in Emilia «si muove in modo diverso rispetto alle regole tradizionali, senza necessità di ricorrere, almeno apparentemente, a riti e formule di affiliazione» e invece per agire «necessita del supporto tecnico e dell'appoggio operativo di commercialisti, fiscalisti, uomini delle forze dell'ordine, giornalisti e rappresentanti della politica locale».

E si fa riferimento, infatti, ad una «'borghesia mafiosà esistente al nord, composta da imprenditori, liberi professionisti e politici, che fa affari con le cosche, ricercandone addirittura il contatto in ragione delle ampie opportunità offerte dall'appoggio dell'organizzazione»; il pagamento del 'fiorè, cioé della percentuale alla 'casa madrè, la 'mazzettà o l'estorsione «sono il mezzo con il quale l'imprenditore e il politico ottengono la protezione e il vantaggio che la cosca può offrire». (Ansa)