«Lettera al sindaco, lui mi definì boss»
Pasquale Brescia rivendica la missiva: «È stato un attacco personale, ho fatto tutto da solo». E nega il registratore in cella
REGGIO EMILIA. «Volevo scrivere già prima, ma quando il sindaco di Reggio Emilia mi definì boss lo presi come un attacco personale verso di me e scrissi quella lettera». È quanto ha dichiarato in aula Pasquale Brescia, uno degli imputati del maxiprocesso Aemilia, dove ieri gli imputati dell’abbreviato hanno replicato alle imputazioni aggiuntive dal 2015 ad oggi (derivate dalle rivelazioni dei pentiti Antonio Valerio e Salvatore Muto) su «inquinamento probatorio e intimidazioni dei testimoni».
Durante l’esame Brescia ha fatto riferimento alla celebre lettera indirizzata al sindaco Vecchi il primo febbraio 2016, recapitata a “Il Resto del Carlino” dall’avvocato Antonio Comberiati (finito a sua volta sotto accusa per minacce e assolto, la Dda ha impugnato). Nella missiva Brescia invitava il primo cittadino a dimettersi e tirava in ballo le parentele della moglie, Maria Sergio. Secondo l’imputato, una “risposta” a due interventi del sindaco apparsi sulla stampa il 24 e il 26 gennaio, che rivendicavano la confisca del Comune del maneggio abusivo di Brescia a Cella.
Brescia, difeso dall’avvocato Gregorio Viscomi, ha tenuto a precisare che la lettera è stata farina dal suo sacco, visto che invece i pm sostengono la tesi della strategia di contrattacco mediatico condivisa dall’organizzazione ’ndranghetista. «Non ho coinvolto nessun altro, non c’era bisogno: ero io il soggetto attaccato», ha dichiarato Brescia, che a precisa domanda sul cognome Sergio ha replicato: «Non è il Sergio che millanta Valerio (il 60enne Eugenio Sergio, ndr), che ha rovesciato l’anagrafe di Cutro: è Francesco, uno zio di Maria Sergio».
L’intento di confutare i pentiti è stato evidente da parte di Brescia («ho avuto a che dire con loro, per cose lievi»): sulla lettera ad Antonio Muto classe 1955 («gli ho scritto perché era un amico, non mi ha risposto»), sulle presunte altre lettere ai vertici Iren e Transcoop («è falso»); sulla lista dei testimoni («l’ha stilata il mio avvocato, nessuno mi ha imposto di rinunciare a testi»).
Sull’accusa di essersi adoperato per far entrare nel carcere un microregistratore con scheda Sd: «Assolutamente no, non è vero. Quel registratore è entrato durante un colloquio diretto, come facevo a sapere io chi c’era a colloquio quel giorno?». Dopo la scoperta del registratore «mi hanno raso al suolo la cella e mi hanno tolto il computer restituendomelo dopo un mese. Ringrazio la Corte perché con quel pc posso studiare tutto il giorno». Al mattino è continuato l’esame di parte dei 25 che hanno scelto l’abbreviato, mentre nel pomeriggio ha tenuto banco la questione intercettazioni (non ancora trascritte). Prossima udienza martedì 3 aprile.
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