Pestaggio, Sarcone e Bolognino a giudizio
Le accuse aggravate dal metodo mafioso. Ma il processo si terrà dal giudice monocratico: per il pm è un errore giudiziario
BOLOGNA. Rinviate a giudizio due persone legate al maxiprocesso Aemilia, cioè Gianluigi Sarcone e Sergio Bolognino: saranno processati per una spedizione punitiva ai danni dello “spesino” (cioè colui che si occupa della spesa tra i detenuti), ordinata secondo la Dda nel marzo 2015 nel carcere bolognese della Dozza per una mancanza di rispetto.
L’AGGRAVANTE
Per i quattro accusati di aver organizzato il pestaggio (nei guai anche i campani Andrea Palummo e Mario Temperato) il gup Gianluca Petragnani Gelosi ha disposto ieri il rinvio a giudizio per lesioni e violenza privata, il tutto aggravato dai metodi mafiosi. Compariranno davanti ad un giudice monocratico di Bologna.
Ma questa decisione è divenuta un autentico “giallo” in quanto i reati con aggravante mafiosa sono di competenza di un collegio (composto da tre giudici) e il pm Beatrice Ronchi sarebbe ora intenzionata a sollevare la questione quando si aprirà il processo nella prima sezione del tribunale monocratico di Bologna.
Ma l’inchiesta “Reticolo”, costola del maxiprocesso “Aemilia”, condotta dai pm dell’Antimafia Marco Mescolini e Beatrice Ronchi col supporto dei carabinieri del Ros, ha portato altri risultati.
Due agenti di polizia penitenziaria, Fabrizio Lazzari, 47 anni, e Loris Maiorano, di 29, sono stati condannati rispettivamente a sette anni e mezzo e quattro anni e mezzo per spaccio, aggravato dal fatto che la cessione di droga avveniva anche in carcere.
Lo ha deciso, nell’ambito del processo con rito abbreviato il gup Petragnani Gelosi, che ha assolto un terzo agente e ha rinviato a giudizio un altro uomo in divisa.
Sei anni a testa sono stati inflitti, sempre in abbreviato, a tre stranieri, due marocchini e un algerino, implicati a vario titolo nell’attività di spaccio fuori e dentro il carcere Dozza.
Ma è il ruolo delle organizzazioni criminali a fare da collante in questa vicenda.
Non è un caso che il filone d’inchiesta sia partito dalle rivelazioni di un pentito durante il maxiprocesso Aemilia, Giuseppe Giglio. Raccontò che in carcere entrava di tutto grazie alla complicità delle guardie. E spiegò che gli esponenti dei clan dettavano legge.
CELLULARI E DROGA
«I telefoni in carcere li forniscono le guardie penitenziarie», disse ai magistrati. «Qualsiasi cosa avevamo necessità, un tablet, cioè qualsiasi cosa loro ci avrebbero...Perché le guardie, tra l’altro, lì sono quasi tutte napoletane», aggiunse. Partì tutto da queste parole. Dai cellulari sì arrivò alla droga. E si ricostruì il famoso pestaggio dietro le sbarre. S’inserisce in questo contesto la richiesta di rinvio a giudizio per quattro uomini che gli inquirenti ritengono legati a ’ndrangheta e camorra. —
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