Accusato di minacce a un amico viene assolto dopo nove anni
Gattatico, la lunga vicenda giudiziaria ha per protagonista Roberto Marchi, 45 anni. «Non c’è da festeggiare, essere riabilitati dopo tanto tempo è una condanna»
GATTATICO. Il processo era per stalking: presunte minacce fatte chiacchierando a conoscenti comuni che avrebbero riferito alle presunte vittime della presunta volontà di nuocere loro da parte dell’ormai ex imputato.
Di chi si tratta? Di un uomo oggi di 45 anni, all’epoca 36enne: Roberto Marchi, operaio metalmeccanico di Praticello, spettatore involontario della querelle giudiziaria. Marchi ha dovuto attendere nove anni per avere la sentenza di assoluzione. Verdetto arrivato in Appello lo scorso giugno, con deposito della sentenza nei giorni scorsi.Nove anni di attesa. «Devo dire grazie solo ai miei avvocati Gianluca Scalera e Olga De Giorgi – dice Marchi – che hanno creduto in me e mi hanno aiutato. Potrei parlare per ore, ma mi limito a dire che in questa vicenda non c’è nulla da festeggiare, perché attendere per nove anni di essere riabilitato e già una condanna di per sé».
Quel che è accaduto nel luglio del 2011, appunto nove anni fa, lo racconta il difensore, del foro di Modena, uno dei legali che si sono occupati del processo per la strage nella discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo. «Marchi era accusato di aver minacciato, tramite terze persone – spiega il difensore – un suo ex amico d’infanzia (un meccanico d’auto coetaneo di Marchi, nonché suo vicino di casa, ndr) e la moglie (all’epoca incita, ndr) dopo che l’uomo aveva testimoniato in un procedimento civile, nato per una controversia, contro l’amico».
In sostanza, l’accusa si fondava su frasi riferite da conoscenti comuni. La sentenza di primo grado in tribunale a Reggio è dell’aprile dell’anno scorso: Marchi è stato condannato a poco più di un anno, con la pena sospesa subordinata al pagamento di una provvisionale, per l’azione di stalking sull’ex amico e assolto dalla medesima accusa nei confronti della donna. L’Appello è arrivato quasi un anno dopo e ha riformato la sentenze di primo grado, assolvendo Marchi perché il fatto non sussiste. «Abbiamo sempre sostenuto – spiega Scalera – l’assoluta inconsistenza dell’impianto accusatorio in quanto mai, in nessuna occasione, era avvenuto un contatto diretto tra l’imputato e la parte lesa. Inoltre, abbiamo evidenziato le frequenti contraddizioni nelle quali i testimoni sono caduti».
Un elemento che i giudici di Corte d’Appello hanno giudicato fondamentale, assolvendo l’operaio per due motivi: perché hanno ritenuto che quelle frasi riferite da terzi potessero essere state ingigantite o male interpretate, e perché su quelle medesime frasi è mancata la prova che siano state pronunciate per intimorire e tantomeno perseguitare l’ex parte lesa.