Reggio Emilia, la testimonianza di Felice Tavernelli: «Sono sopravvissuto al coronavirus dopo 50 giorni d’inferno»
Il re reggiano del liscio ieri è tornato a casa dall’ospedale: «Ero disperato e pensavo di non farcela: un dramma che mi ha cambiato»
Chiara Cabassa
REGGIO EMILIA. «Dopo cinquanta giorni passati all’inferno, oggi finalmente torno a casa». Ce l’ha fatta. Felice Tavernelli, 76 anni, ha combattuto contro il Covid e ha vinto. Non è stato facile. Anzi, è stata probabilmente la sfida più difficile per un uomo al quale il destino non ha risparmiato, anche recentemente, perdite che lasciano tracce indelebili. Ferite aperte. Dolori insanabili.
Come ci si sente dopo essere usciti da una prova così dura? Sopravvissuti?
«Nessuno può immaginare cosa significhi essere contagiato dal Covid ed esserlo così pesantemente come è capitato a me. Sono stato per cinquanta giorni ricoverato al Santa Maria. Ho visto di tutto. Sentito ogni cosa. E sì - la voce si rompe - ci sono stati momenti in cui ho pensato di non farcela. Di non avere più la forza di reagire. Ero disperato. Sì, disperato».
Ma come è iniziato questo incubo?
«Appena dopo Natale ho cominciato ad avere i primi sintomi. Prima una brutta tosse. E una grande stanchezza. Ho fatto il tampone e sono risultato positivo. Ho iniziato le terapie a casa, ma giorno dopo giorno peggioravo, fino a quando mi è stata diagnosticata la polmonite bilaterale. Il 3 gennaio ero all’ospedale».
Cosa ricorda di quei giorni infiniti?
«Sono stato sottoposto a terapie pesantissime e mi sentivo sempre più debole. Poi la terapia intensiva, durissima, per venti giorni. E ogni giorno poteva essere l’ultimo. Nella testa ti passano tanti pensieri e tanti volti. Mia moglie, i mie nipoti, mia figlia... Poi sentivo la mano di mia figlia sulla fronte, e trovavo la forza di reagire. Un giorno, è passato il diacono e mi ha detto che era stata ricoverata anche mia moglie. Un’altra mazzata. Per fortuna lei si è ripresa abbastanza velocemente».
Come se ne esce?
«Diversi. Cambiati. Un esempio: io non sono credente. Ma ho saputo che tantissimi amici e conoscenti, mentre ero all’ospedale, si riunivano in piccoli gruppi di preghiera. Per me. Perché guarissi, Perché potessi tornare a casa. Questo mi ha fatto pensare molto. Vedere le cose in modo diverso. Adesso mia figlia – e la voce viene inghiottita dall’emozione – la vedo in Paradiso».
Ora come sta?
«Stanchissimo. Ho fatto dieci giorni di riabilitazione ma faccio ancora fatica a muovermi. Almeno posso tornare a casa, e non vedo l’ora di farmi la barba (bentornato al re del liscio ndr), faccio proprio schifo».
Qualcosa di bello, in ospedale, lo ha lasciato?
«Non dimenticherò la professionalità, la serietà e l’umiltà del personale sanitario, a partire dagli infermieri. I loro sguardi sono stati cura». —
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