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Il dibattito sul fine vita, «Dobbiamo riscoprire la compassione e smettere di pensare di essere soli»

Martina Riccò
Il dibattito sul fine vita, «Dobbiamo riscoprire la compassione e smettere di pensare di essere soli»

L’intervista a Giorgia Pinelli, professoressa e presidente del cammino sinodale, dopo la bocciatura del referendum sull'eutanasia da parte della Corte Costituzionale

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REGGIO EMILIA. «Quando parliamo di omicidio del consenziente è evidente che non parliamo di eutanasia, e lo dico non da giurista ma col “buon senso della massaia”. Ammettere l’omicidio del consenziente avrebbe creato una apertura capace di stravolgere l’intero ordinamento italiano». A parlare così è Giorgia Pinelli, docente di filosofia nei licei e di e pedagogia alla facoltà teologica dell’Emilia-Romagna nonché presidente del Cammino sinodale diocesano di Reggio Emilia e Guastalla.

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Cosa sarebbe cambiato?

«Approvare l’omicidio del consenziente, seppur in parte come richiesto dal quesito referendario, avrebbe potuto spalancare la porta a qualunque omicidio con consenso. Ma un consenso, lo sappiamo, può essere anche estorto sotto minacce o manipolazione. E a omicidio avvenuto come potrei dimostrare se questo consenso c’è stato o meno? Si potrebbe addirittura artefare ex post. Quando la Corte Costituzionale, che non è la Cei ma ha in sé diverse anime e rispecchia vari orientamenti, dichiara illegittimo l’omicidio del consenziente io credo che stia pensando a questo. E infatti lo motiva dicendo che non “sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana”. Parlando di omicidio del consenziente andiamo ben oltre il campo della sofferenza e del dolore e usciamo anche dal tema della decisione sulla propria vita rispetto a una condizione di sofferenza».

Eppure è di sofferenza e dolore che si sta parlando.

«La sofferenza, il dolore e la morte sono aspetti incredibilmente delicati per l’uomo, e dico questo in prospettiva laica, non religiosa. Mi sembra però che nella nostra cultura contemporanea si sia affermata una visione tecnicistica della sofferenza: il dolore è qualcosa di profondamente umano, eppure noi lo abbiamo ridotto a un problema da risolvere. Non a caso, quando il filosofo Hans-Georg Gadamer si interrogava sui temi della salute e della cura, diceva che il medico di fronte alla sofferenza non può pensarsi come tecnico della patologia ma deve concepirsi come guaritore ferito».

“Guaritore ferito”?Cosa significa?

«Si tratta di una figura archetipica della mitologia greca rappresentata dal centauro Chirone che, ferito aspramente da una freccia avvelenata, fu condannato a vivere soffrendo senza poter mai guarire. Ma a causa di questa sofferenza, cercando un rimedio per sé, Chirone diventa guaritore per gli altri. Questo mito riafferma la necessaria dimensione della compassione, ossia il “soffrire insieme”, la consapevolezza che la sofferenza dell’altro riguarda anche me».

E questa compassione nel fine vita non c’è?

«Ai miei occhi la compassione, così come una riflessione sulla solitudine, mancano dall’attuale dibattito sul fine vita. Si sta discutendo di regole, confini, tecniche, mentre manca una domanda di senso sul vivere, morire, soffrire, compatire».

Chi sostiene il referendum sull’eutanasia rivendica il diritto a essere libero fino alla fine, ossia fino alla propria morte. Come si può negare questa libertà?

«A partire dall’epoca della modernità, dunque tra 1400 e 1800, la libertà è stata interpretata come libero arbitrio, ovvero come possibilità di scelta tra opzioni equivalenti. Nell’epoca medievale ma anche in epoca classica (quella dei greci e dei romani dunque, pagani e non cristiani), la libertà aveva più a che vedere con la ricerca del Bene (con la “b” maiuscola) e nell’adesione a quello stesso Bene, che è il bene del singolo ma contemporaneamente anche il bene in sé, per l’essere umano come tale. Questa posizione ci sfida: invita a guardare ogni circostanza come richiamo e indicazione di un compimento che io, essere finito, desidero eppure non posso darmi; rilancia una domanda di compimento che anche chi grida contro il proprio dolore porta in sé. La grande domanda alla fine è proprio questa: fino a che punto noi disponiamo di noi stessi? Ognuno di noi in astratto può certamente decidere della propria vita, ma è questa autodeterminazione solipsistica la libertà? C’è un significato nel mio vivere? Nel mio morire? E in tutto quello che ci passa in mezzo: soffrire, gioire, sperare? Ho l’impressione che tutta la nostra capacità medica e tecnica, che grazie al cielo abbiamo, siano rivolte al guarire. Ma curare e guarire sono cose distinte».

Cosa intende?

«La sofferenza, il dolore e la morte non si possono evitare né estirpare definitivamente dall’esistenza, tuttavia anche nei casi in cui non possiamo dare la guarigione possiamo dare la cura. Non mi riferisco solo alla pur necessaria cura materiale, fatta di supporti vitali, ma alla cura umana, nel suo significato più ampio. Torniamo al concetto di “com-patire”, stare insieme nel dolore: io posso stare con te, testimoniarti che la tua esistenza è degna e anzi è un miracolo, anche nell’estrema fragilità e nel grande dolore. Posso stare vicino a te, per riaffermare che non sei solo in questa situazione. Dal momento che etica e legge inevitabilmente fissano principi di portata universalizzante, mi pare che questo dibattito sul fine vita rischi di fare passare come principio generale un concetto pericoloso».

Quale?

«L’idea che ognuno sia solo di fronte alle questioni fondamentali dell’esistenza, persino di fronte agli ultimi momenti di questa. Soli perché abilitati a decidere in modo assoluto di sé (quando le nostre esperienze ci restituiscono sempre un’ultima impotenza, che ci caratterizza in modo strutturale); e perché individui, atomi isolati che appunto da soli si trovano di fronte al dolore e alla morte. È la solitudine a rendere disumano il tutto. E purtroppo avverto poca domanda di senso e tanta solitudine nel dibattito in corso oggi nel nostro Paese».



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