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La testimonianza

Il pentito Valerio incalza i Grande Aracri: «Collaborate con la giustizia»

Tiziano Soresina
Il pentito Valerio incalza i Grande Aracri: «Collaborate con la giustizia»

Processo Grimilde: il pentito lancia una sorta di appello alla famiglia cutrese di Brescello «Nel 2006 Nicolino indicò come capo Salvatore inviando una lettera alle nozze»

27 giugno 2022
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Reggio Emilia Sta parlando come sempre a briglia sciolta il pentito Antonio Valerio sul suo percorso criminale nella’ndrangheta emiliana, soffermandosi – incalzato dalla pm Beatrice Ronchi – su diversi punti che riguardano il processo Grimilde che si sta celebrando, quando all’improvviso, in modo fulmineo fa una sorta di appello: «Già che ci sono lo dico – rimarca sbigativamente – se i Grande Aracri (rivolgendosi alla famiglia di Brescello, ndr) volessero collaborare sarebbe una buona cosa. Collaborare con la giustizia conviene sempre, ti cambia la vita».

Un lampo, poi riprende la deposizione come se nulla fosse. Valerio ha cementato con le sue dichiarazioni l’impianto accusatorio del maxi processo Aemilia, iniziando a dare spunti agli inquirenti a giugno del 2017. Lasciandosi così alle spalle una carriera criminale iniziata da giovanissimo (a 15 anni dopo l’omicidio del padre negli anni’70) e costruita con svariate attività- dal traffico di droga, alle false fatturazioni, alle truffe con il gasolio, fino alla partecipazione in omicidi tra la Calabria e l’Emilia. Gli affari illegali che Francesco, fratello del boss Nicolino Grande Aracri, e i suoi figli Salvatore (condannato nell’abbreviato di Grimilde in primo e secondo grado) e Paolo portavano avanti sulle sponde del Po, così come il loro agire “nell’ombra” per non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, sono tutti confermati da Valerio. Che colloca il suo primo incontro («per riorganizzarmi nella’ndrangheta») con due dei fratelli Grande Aracri- l’attuale imputato Francesco e Rosario nel 1998- in un bar della piazza centrale di Brescello. «Giocavano a carte, c’era anche Alfonso Diletto che poi mi diede un milione di lire, aveva tanti soldi. Nel bar riconobbi due carabinieri di Reggio Emilia e mi preoccupai, quindi parlai di fretta con Rosario».

Il collaboratore precisa che «in quel periodo i due fratelli erano allo stesso livello, ma per questioni di affari bisognava rivolgersi a Rosario». Poi i ruoli si invertirono e al timone passò Francesco, fino alla condanna per associazione mafiosa riportata nel 2003 nell’ambito di Edilpiovra. A quel punto, prosegue Valerio, «il brand “Grande Aracri” era importante a livello ’ndranghetistico, ma era anche esposto. E Francesco decise di fare un passo indietro, mandando avanti il figlio Salvatore». Questi, detto “Calamaro” per l’indole tentacolare negli affari, ricevette “l’investitura” in un giorno particolare. Durante la festa per il suo matrimonio, avvenuto nel 2006 («Al ristorante “Millefiori” dei Vertinelli a Montecchio») , fu infatti recapitata e letta davanti a tutti una lettera di Nicolino Grande Aracri, che Valerio definisce “la bolla papale”, in cui il boss detenuto ordinava a tutti gli affiliati di mettersi al servizio del nipote. Francesco Grande Aracri ha infine sostenuto di aver visto Valerio una sola volta, ad una fiera a Bologna nel 2006. Il collaboratore conferma l’incontro in tale occasione, rimarcando però che non fu affatto l’unico. Il pentito si sofferma su due episodi del 2001. In primis su un incontro nella sua casa reggiana (in via Ferravillaa) in cui Salvatore e Paolo Grande Aracri, Girolamo Rondinelli e Salvatore Frijio gli portarono «l’ambasciata di zia Maria (Giuseppina Mauro, moglie di Nicolino Grande Aracri in quel periodo in carcere, ndr) in cui chiedeva che venisse ammazzato Pitti Palumba (Salvatore Arabia, poi ucciso in Calabria nel 2003, ndr) e mi diedi da fare con alcune persone che lavoravano per me per trovare una base logistica, individuando la reggia di Rivalta che era disastrata, per nascondere i killer». La seconda precisazione riguarda l’appuntamento a Brescello con Rosario e Francesco Grande Aracri: «Mi dissero di avvicinare al clan i fratelli Salvatore e Roberto Turrà appena usciti di cella». Fa anche un riferimento ai fratelli Oppido, cioè Vincenzo e Gaetano (imputato in Grimilde per la maxi truffa allo Stato) . «A metà degli anni’70 frequentavano a Cutro casa mia. Prendevano appalti e costruivano per la’ndrangheta. Mio padre faceva trasporto-persone e gli chiesero di accompagnare gli operai nei cantieri».l

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