Gazzetta di Reggio

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L’arresto del boss

Matteo Messina Denaro, la passione per le opere d’arte e la trattativa Stato-Mafia

Matteo Messina Denaro, la passione per le opere d’arte e la trattativa Stato-Mafia

Da latitante U’ Siccu si interessò del recupero delle tele rubate nel 1992 a Modena. Nelle sue mani finì il biglietto che il killer reggiano Bellini consegnò a Cosa Nostra

16 gennaio 2023
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«Facciamola avere a Matteo!». Le preziose tele rubate alla Pinacoteca di Modena dalla banda di Felice Maniero, la trattativa Stato-Mafia sulle opere d’arte fra il boss, Nino Gioè e la Primula Nera reggiana, Paolo Bellini, con una busta che finisce nelle mani di U’ Siccu, le stragi del 1993 in Continente, che presero di mira i beni culturali dello Stato. Un esperto di opere d’arte. È anche questo Matteo Messina Denaro, il superlatitante arrestato ieri a Palermo, riuscito a sfuggire per 30 anni alla cattura. Una passione che aveva ereditato dal padre, il vecchio boss Francesco Messina Denaro, collezionista di reperti, che al figlio aveva trasferito abilità e competenze. È nelle vesti di esperto di opere d’arte che U’ Siccu divenne da latitante il «terminale dal lato della mafia del possibile recupero di beni artistici trafugati ai legittimi proprietari nell’ambito della trattativa fra Gioè e Bellini», ovvero la Primula Nera reggiana, condannato in primo grado nel processo sulla strage del 2 agosto come il quinto uomo dell’attentato in stazione a Bologna. Un processo nel quale Bellini si è sempre proclamato innocente, di cui sono attese le motivazioni e per il quale è previsto l’Appello entro fine anno.

Lo storico arresto di Messina Denaro potrebbe contribuire a riannodare un filo sottile che collega l’Emilia e la Sicilia, Bologna con Capaci, via D’Amelio, Roma, Milano e Firenze, intrecciando terrorismo nero, massoneria, servizi segreti e stragi di mafia, in oltre quarant’anni di misteri. Su Messina Denaro, infatti, è in corso l’appello per la condanna all’ergastolo con l’accusa di essere tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio del 23 maggio e del 19 maggio 1992, costati la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e a uomini e donne delle scorte. Fra le condanne da latitante, anche quella per le stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano, quando Cosa Nostra cambiò la strategia stragista mettendo nel mirino i beni artistici dello Stato e intavolando trattative con le istituzioni per far cessare la terribile stagione degli attentati. Protagonista di una di queste trattative, che finì su un binario morto, è stato proprio il killer reggiano Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, latitante a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 con il falso nome brasiliano di Roberto Da Silva, autore di omicidi come quello del militante di Lotta Continua, Alceste Campanile, e testimone da collaboratore di giustizia al processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia del 1992. Bellini nel 2019 ha deposto sempre come testimone proprio nel processo di Caltanissetta su Messina Denaro. Ed è in questo processo che viene certificato il fatto che il boss di Castelvetrano – noto per ironia della sorte anche come la Primula Rossa – fosse a conoscenza della trattativa fra lo stesso Bellini e Antonino “Nino” Gioè, boss di Altofonte. Gioè è stato uno degli attentatori di Capaci, considerato vicino a servizi e massoneria, suicida a 45 anni nel 1993 in carcere a Rebibbia in circostanze considerate sospette. Si ipotizza che morì mentre era in procinto di collaborare con la giustizia nell’ambito del protocollo Farfalla, ovvero l’accordo riservato stipulato tra servizi e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria per gestire le informazioni provenienti dai penitenziari di massima sicurezza. Una morte avvenuta nell’arco di 20 minuti, durante i quali all’agente di sorveglianza fu ordinato di allontanarsi.

Recentemente sulla morte di Gioè hanno riacceso i riflettori la Procura di Reggio Calabria, quella di Caltanissetta e quella di Firenze. Nella cella in cui venne trovato il corpo, c’era un biglietto in cui Bellini veniva indicato come un infiltrato.

La cosiddetta Trattativa sulle opere d’arte prende il via dal furto di cinque preziose tele rubate a gennaio del 1992 alla Pinacoteca di Modena, fra le quali il “Francesco I” di Velazquez. Cinque tele di valore inestimabile, recuperate definitivamente dalla Criminalpol nel 1995, in un’operazione in cui dal furto fino al ritrovamento si adombrò lo zampino della Mala del Brenta e del boss Felice Maniero, “faccia d’angelo”. Un primo recupero ci fu a dicembre del 1993, quando in un cimitero nella Bassa ferrarese venne ritrovato il Velazquez e un Correggio. Prima dei due ritrovamenti, è attraverso l’ispettore Giuseppe Procaccia della polizia di Reggio Emilia che Paolo Bellini viene incaricato di attivarsi per recuperare le tele. Bellini accettò, sperando di ottenere l’affidamento al servizio sociale o la semilibertà in relazione a una condanna a tre anni per furto e commercio di opere d’arte trafugate. Ed è attraverso l’esperto d’arte marchigiano Agostino Vallorani che lo stesso Bellini – con l’alias di Aquila Selvaggia – entra in contatto con l’allora maresciallo del Nucleo tutela e patrimonio artistico, Roberto Tempesta, in una trattativa di cui era a conoscenza anche Mario Mori, ex comandante del Ros ed ex direttore del Sisde. La Primula Nera individua in Gioè, che conosce in carcere ai tempi della latitanza brasiliana, un possibile intermediario. E dalla primavera all’autunno 1992 partono i viaggi in Sicilia, proprio mentre Cosa Nostra mette a punto la strategia stragista. In uno degli incontri, Bellini consegna a Gioè una busta gialla. Dentro ci sono le foto delle opere rubate a Modena: oltre al Francesco I di Velazquez, il trittico di El Greco, la Madonna col bambino di Correggio e La piazzetta di San Marco e L’isola di San Giorgio Maggiore di Guardi. In un altro incontro, Gioè consegna a Bellini un biglietto con cinque nomi: Bernardo Brusca, Luciano Liggio, Pippo Calò, Giuseppe Giacomo Gambino e Giovan Battista Pullarà, ovvero cinque boss per i quali Cosa nostra chiedeva benefici carcerari, come arresti domiciliari o ospedalieri, lamentando il carcere duro. Per le tele sottratte a Modena, spiega Gioè, non c’è nulla da fare, ma il boss di Alfonte spinge per continuare la trattativa attraverso la restituzione di altre opere indicate proprio nella disponibilità di Messina Denaro.

Dagli atti non risulta alcun contatto diretto fra Bellini e Messina Denaro. Ma sono gli altri boss e pentiti di mafia a tirare in ballo l’ormai ex superlatitante. Ne parlano, ad esempio, Gioacchino La Barbera, Luca Bagarella e Giovanni Brusca, U’ scannacristiani, condannato come colui che ha premuto il telecomando per azionare la bomba di Capaci. Furono proprio Bagarella e Brusca – su indicazione di Totò Riina – a chiamare in causa U’ Siccu per fargli vedere le tele di Modena: «Facciamola avere Matteo», in relazione alla busta di Bellini. E poi, riferisce La Barbera: «Matteo era diciamo competente della materia, non era uno sprovveduto, si è mostrato abbastanza competente. Anche di opere d’arte, cioè non era… cioè è una cosa che veniva da padre in figlio». E ancora: «Io personalmente ho fatto avere le foto a Matteo Messina Denaro. Lui mi ha risposto che c’era la possibilità... In particolare si trattava... va beh... si trattava di un cane con una testa mozzata, che sarà stato pure importante l’ho visto in foto, e che Matteo Messina Denaro aveva la possibilità di farglielo avere, quindi riferisce... il Gioè riferisce a Bellini che c’era la possibilità di fare recuperare queste opere; in cambio ha fatto dei nomi... e questo è il giorno in cui ho... diciamo, ho assistito». Fra le opere della trattativa, al posto di quelle di Modena, entrano altri dipinti rubati al Palazzo Mazzarino di Palermo. La trattativa si arena. Ma non la stagione stragista. Da pentito, Busca ha sostenuto che fosse stato Bellini – in passato archiviato nelle indagini sulla strage di Firenze – a instillare a Gioè e alla mafia l’idea di colpire i monumenti. Bellini ha risposto querelando U’ scannacristiani. Per lui fu Gioè a dirgli: «Che ne direste se un giorno sparisse la Torre di Pisa?». E Matteo Messina Denaro? A Caltanissetta, il boss Vincenzo Sinacori ha spiegato che in un incontro con U’ Siccu e Gioè ci si soffermò sui malumori per il carcere duro a Pianosa, prospettando la possibilità che lo Stato fosse indotto a mutare atteggiamento con un attacco al patrimonio artistico, cominciando da Torre di Pisa e templi di Selinunte: «Ho ricordi vaghi, però ricordo che si parlò pure della Torre di Pisa, che sarebbe stata una mostruosità, però è così. Si parlò pure di fare attentati... parlavano anche di fare attentati ai templi a Selinunte, ma Matteo si oppose completamente, dice che questi erano pazzi proprio, Selinunte è in Castelvetrano». l

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