Genco condannato a 29 anni per aver ucciso Juana Cecilia
Femminicidio di via Patti Concesse le attenuanti, evita l’ergastolo La pm Pantani aveva chiesto il massimo della pena: «Fatto gravissimo»
Reggio Emilia La dura condanna (29 anni e 3 mesi di reclusione) è arrivata ed era prevedibile vista la brutalità con cui l’ex fidanzato 26enne Mirko Genco – reo confesso – ha ucciso la peruviana 34enne Juana Cecilia Hazana Loayza. Ma non si è materializzata la pena dell’ergastolo come richiesto con forza dalla pm Maria Rita Pantani al culmine di una serratissima requisitoria. Pena massima invocata nelle arringhe a seguire delle sei parti civili. Una maratona processuale chiusasi ieri poco dopo le 19.30, lasciandosi dietro di sè dieci ore di battaglia legale su un femminicidio che ha scosso non poco la nostra comunità nel novembre 2021. Nel parco di via Patti venne trovata cadavere la povera Cecilia, su cui il suo assassino aveva abusato sessualmente due volte, strangolandola per poi finirla a coltellate. Un omicida lucido, determinato, come ha detto la perizia psichiatrica. La Corte – presieduta da Cristina Beretti, a latere il collega Giovanni Ghini e i giudici popolari – ha condannato Genco per l’omicidio volontario, il porto abusivo d’arma, la violenza sessuale, la violazione di domicilio e l’evasione. Ma ritenendo «le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti (futili motivi, recidiva nello stalking e minorata difesa della 34enne, ndr)» il collegio giudicante ha escluso l’applicazione dell’ergastolo.
L’imputato è stato assolto «perché i fatti non sussistono» da due accuse: tentato omicidio e rapina (quest’ultima relativa all’impossessamento delle chiavi che Cecilia aveva nella borsetta, per poi salire in casa e prendere il coltello da cucina usato per completare la mattanza). Genco, piuttosto frastornato, è stato accompagnato fuori dall’aula subito dopo la lettura della sentenza. Ha parlato pochi minuti con il suo difensore – l’avvocatessa Alessandra Bonini – ed è rientrato in carcere. «Gli ho spiegato il contenuto del verdetto – spiega ai cronisti poco dopo il legale – cioè che la valutazione delle attenuanti generiche ha estromesso l’ergastolo. La ritengo una pena corretta, non c’è comunque soddisfazione vista la gravità dei fatti, ma un giudizio positivo su una sentenza che dà a Genco la speranza, un giorno, di una vita fuori dal carcere».
Con addosso il solito crocifisso, l’imputato è rimasto concentrato sui vari interventi, guardandosi spesso attorno. Un atteggiamento quasi gelido, con due sterzate nel momento delle repliche. Prima lo scontro con la pm Pantani che adombra il vizio della cocaina nell’imputato che aveva un buon stipendio eppure era spesso squattrinato e lesinava i soldi all’allora fidanzata Cecilia. Lui si lascia andare ad un «forse» sul punto, ridendo in faccia al magistrato inquirente a cui non sfugge però quest’atteggiamento: «Questo la dice lunga – tuona la pm Pantani – sul comportamento processuale dell’imputato che ha parlato solo per cercare di evitare l’ergastolo». Per l’accusa è un uomo che ha agito con la massima crudeltà, non ha mai chiesto scusa, non ha risarcito il danno, la sua confessione è stata neutra perché ormai l’inchiesta in poche ore aveva ricostruito tutto della terribile vicenda, cioè «uno dei femminicidi più gravi commessi nel nostro Paese».
Genco, a sorpresa, ha parlato prima che la Corte entrasse in camera di consiglio: «La legge siete voi – dice rivolto ai giudici – fate quello che ritenete giusto. Mi dispiace per quello che ho fatto, a tutt’oggi non riesco a capacitarmi di quello che ho fatto». Poco prima l’avvocatessa ha ricostruito un quadro di messaggi, per mettere in una luce più opaca Cecilia («Chiede spesso soldi, vuole fare una macumba all’ex marito, si rende disponibile per un annuncio a luci rosse») e argomenta sulla confessione come elemento primario delle attenuanti, poi effettivamente concesse.