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«La mia professione mi entusiasma e questo rende tutto più facile»

Chiara Cabassa
«La mia professione mi entusiasma e questo rende tutto più facile»

Alessia Ciarrocchi dirige il Laboratorio di ricerca traslazionale dell’Ausl Irccs Lavoro e famiglia: «Il fatto è che ovunque tu sia, ti mancherà sempre un pezzettino»

07 marzo 2023
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Reggio Emilia «Siamo il risultato di quello che abbiamo fatto». Ma anche: «No agli stereotipi secondo cui le donne che raggiungono certi obiettivi sono dotate di superpoteri». E ancora: «Le quote rosa? Una forzatura».

Alessia Ciarrocchi, classe ’75, biologa molecolare, ricercatrice di Airc, dal 2015 dirige il Laboratorio di ricerca traslazionale dell’Ausl Irccs che oggi conta 18 ricercatori. Dal 2020 è presidente della Fondazione E35 che si occupa di progettazione internazionale. L’obiettivo principale della sua ricerca è quello di approfondire le conoscenze dei meccanismi molecolari coinvolti nelle patologie oncologiche. Seduta nel suo ufficio davanti a una scrivania invasa di fogli, libri, appunti e cartelle, ha negli occhi l’amore per la sua professione e nel sorriso l’entusiasmo di chi è pronto ad accogliere nuove sfide. E di chi nella complessità vede nuove opportunità.

Partendo dalla complessità, come donna ha dovuto sgomitare per affermarsi nella sua professione?

«Ho solo seguito la mia vita. Non ho mai avuto la sensazione di dovere lottare per affermarmi. Ho inseguito quello che era professionalmente il mio desiderio e in tutte le fasi che ha comportato questo cammino non ho mai trovato difficoltà in quanto donna. Diciamo che mi sento artefice del mio destino fino a un certo punto: sono stata brava a cogliere le occasioni, ma quelle occasioni potevano anche non esserci. Quanto ai condizionamenti... mi sono fatta condizionare dall’essere donna».

In che senso?

«Non credo nello stereotipo secondo cui chi raggiunge certi obiettivi deve per forza essere dotata di super poteri. Credo piuttosto che ogni donna, quotidianamente, si trovi a combattere con i propri sensi di colpa. È un po’ come soffrire della “sindrome dell’impostore”: forse l’unico modo per essere una madre corretta e una professionista all’altezza del suo ruolo».

Quando è scattato in lei il desiderio di maternità?

«Diciamo che io sono diventata madre prima di diventare ricercatrice nella convinzione che una donna deve essere libera di poter scegliere. Anche quando le scelte sono difficili. E consapevole che c’è un periodo giusto per ogni cosa. Ho avuto la mia prima figlia, Aurora, mentre stavo lavorando come ricercatrice al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York e sono ritornata in Italia quando ero incinta della seconda figlia, Micol».

E sono cambiate le priorità.

«Così deve essere. C’è un momento in cui la professione è al centro, poi ci sono i figli, la famiglia, e di nuovo la professione. Bisogna però fare pace con il fatto che, ovunque tu sia, ti mancherà sempre un pezzettino. Alla fine l’importante è cercare di dare il meglio di se stessi... Ma i sensi di colpa sono lì, non li sconfiggi. Anche se mi ritengo fortunata: la mia professione mi entusiasma, e questo rende tutto più semplice. Anche se - e sorride - parlando di un lavoro di ricerca, le frustrazioni non mancano neppure qui».

Quando cambiano le priorità mutano anche le prospettive?

«Nel mio caso sì. Una volta mamma, si è placata in me l’ansia da prestazione. Da madre acquisisci la serenità e la consapevolezza che derivano dal doversi “prendere cura”».

Oggi come vive il suo ruolo di leadership in quanto coordinatrice del Laboratorio di ricerca traslazionale?

«Sono arrivata al ruolo di coordinatrice seguendo un percorso naturale e attraversandone tutte le sfumature. Ho lavorato in laboratori aperti dove erano la squadra e la discussione aperta a fare la differenza. In un caso avevo un “capo” donna e nell’altro uomo. Io ho replicato i modelli vissuti che si sono rivelati funzionanti. Soprattutto lavorando negli Stati Uniti, sono cresciuta tantissimo. Un approccio multidisciplinare esprime un forte potenziale: il modello applicato qui a Reggio ci colloca all’altezza dei più importanti laboratori».

Quanto è predominante la presenza femminile nel suo laboratorio?

«Lavoro soprattutto con professioniste donne, di grande valore. Non so perché questo succeda, ma la scienza in ambito biomolecolare in Italia tende ad essere declinata al femminile soprattutto nelle fasi iniziali della carriera. Purtroppo, in Italia manca un riconoscimento per il profilo professionale. Spesso gli uomini scelgono carriere più remunerative e che garantiscono maggiore visibilità. Mentre le donne, è un dato di fatto, tendono ad adattarsi maggiormente. D’altra parte in Italia non si è mai investito sulla ricerca e sulla professionalità di chi la opera. Il risultato? I cervelli migliori sono italiani ma lavorano all’estero».

Quando si è innamorata della ricerca?

«È stato al secondo anno del liceo. L’idea delle molecole all’interno di un microcosmo in cui è tutto perfettamente funzionante mi ha fatto innamorare. Poi, all’università, ho incontrato come tutor per la tesi e il dottorato la professoressa Maria Luisa Melli, classe ’34, una pioniera della biologia molecolare: negli anni ’50, per potere studiare negli Stati Uniti, si era imbarcata su una nave. Un bel modello anche nel suo approccio alla vita».

Tornando un attimo indietro, lei è nata a Cupramarittima, un paesino sul mare in provincia di Asoli Piceno. E di strada ne ha fatta.

«Mi ricordo benissimo quella giornata di ottobre in cui sono partita per andare a Bologna e frequentare l’università. Mi trovo spesso a pensare che probabilmente, se avessi saputo che non sarei più tornata, neppure avrei preso quel treno».

Scendendo a terra, cosa ne pensa delle quote rosa e nelle declinazioni al femminile delle professioni?

«Considero le quote rosa una forzatura: sebbene possono essere uno strumento per tenere alto il dibattito sull'argomento, credo siano uno strumento limitato nell'efficacia e sbagliato nel suo significato. Mi rifiuto di pensare di essere stata scelta in quanto donna come categoria protetta piuttosto che come professionista capace. Quanto alle declinazioni faccio mia la cultura anglosassone: non è una vocale o un asterisco a cambiare il valore di una persona».

Siamo probabilmente tutti d’accordo sul fatto che la violenza di genere si combatte con l’educazione. Qual è il suo approccio?

«L’educazione viene dall’agire nel rispetto di qualsiasi persona, anzi di ogni essere vivente. Io, come madre di due femmine, penso che dobbiamo educare le nostre figlie ad essere libere al di là degli stereotipi. Ad aver il coraggio di essere quello che vogliono essere. A non lasciarsi abusare. Tutti abbiamo una responsabilità».

Da due anni lei è presidente della Fondazione E35. Come nasce questa esperienza?

«La proposta mi è stata fatta in un momento in cui avevo bisogno di stimoli nuovi. E ho raccolto la sfida. Si tratta di una realtà lontana dalla mia professione e forse proprio per questo ho scelto di buttarmi. La Fondazione E35 opera raccogliendo le sfide provenienti dal territorio con l’obiettivo di individuare opportunità per la città di Reggio Emilia e partecipare in tal modo allo sviluppo culturale, sociale ed economico dell’Unione Europea. Anche in questo caso si lavora in équipe, un aspetto per me fondamentale. Una bellissima esperienza».

Quale sarà la prossima... opportunità?

«In realtà sto cominciando a chiedermi cosa farò da grande. Penso alla professione di un ricercatore come a quella di un atleta: la puoi fare fino a una certa età, poi è giusto lasciare. Il cervello di un trentenne non è quello di un cinquantenne. Allora, in pace con il percorso fatto, ci si avvia verso una dimensione diversa. Non voglio che arrivi il momento del “tanto ormai”».

Del passato cosa le manca?

«La spensieratezza. E la leggerezza». l

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