Il processo

Presunti affidi illeciti in Val d’Enza: «Virgolettati inventati»

Ambra Prati
Presunti affidi illeciti in Val d’Enza: «Virgolettati inventati»

Il caso di un’adolescente 17enne. L’inquirente: «La minore ha negato di aver pronunciato quelle frasi»

09 maggio 2023
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Reggio Emilia Un atto di autolesionismo accaduto a scuola diventava un sintomo di disagio riconducibile a un abuso sessuale, secondo le relazioni dei Servizi Sociali della Val d’Enza. Peccato che, quando gli inquirenti hanno interpellato i diretti interessati – cioè i minori e i loro familiari – questi ultimi hanno smentito categoricamente affermazioni che, nelle relazioni, erano virgolettate. A riferirlo, ieri in tribunale a Reggio nel maxi processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza con 17 imputati, è stato il maresciallo capo del Nucleo Investigativo dei carabinieri Giuseppe Milano. Il carabiniere che ha guidato la spinosa inchiesta sui bambini strappati alle loro famiglie (è il primo testimone dell’accusa, ce ne sono 400 in programma) è stato protagonista di un’altra deposizione fiume. E anche stavolta, in questo processo dai nervi tesi, le contestazioni da parte degli avvocati difensori non sono mancate: sono state sollevate eccezioni per limitare la «testimonianza ipertrofica» del maresciallo, che per i legali «non si limita ad esporre i fatti, ma fornisce una sua interpretazione». Interpellata dalla presidente del collegio Sarah Iusto (a latere Michela Caputo e Francesca Piergallini), il pm Valentina Salvi ha replicato: «È pertinente. Non è nell’interesse dell’accusa appesantire il processo. Anzi».

Il caso trattato, ritenuto dall’accusa esemplare rispetto alla “forzatura” operata dai Servizi sociali che vedevano abusi sessuali ovunque facendo partire plurimi procedimenti giudiziari che quasi sempre finivano in nulla, è quello di due sorelle: la prima all’epoca (nel 2018) neomaggiorenne, la seconda 17enne. Individuate a partire dalle sedute di psicoterapia con Claudio Foti, le sorelle erano sconosciute agli inquirenti, che hanno acquisito il fascicolo e ricostruito la vicenda familiare a ritroso. Il nucleo di genitori e due figlie entra nell’orbita dei Servizi durante una separazione conflittuale, durante la quale la madre riferisce la presunta confidenza della figlia: a 3-4 anni avrebbe detto che il padrino, socio del padre, le toccava le parti intime. Dopo la separazione, avvenuta nel 2009, la situazione si normalizza. Ma la “macchina” dei Servizi è partita, con le prime relazioni (di Federica Anghinolfi e del braccio destro Francesco Monopoli) secretate su un «possibile abuso sessuale per ora non conclamato». Sono partiti anche i colloqui psicologici, che la minore ha interrotto per sua espressa volontà. Da lì in poi è un crescendo: quando la ragazzina rivela di aver avuto il primo rapporto sessuale a 13 anni con il fidanzatino parte un processo per violenza sessuale al tribunale dei Minori di Bologna, che sarà archiviato. Quando la ragazzina giustifica i segni rossi sulla pelle («me li faccio quando guardo film horror con il papà», «provo piacere nello spaventarmi», in un sogno «c’è qualcuno che mi guarda da dietro una porta ma non posso dire chi è perché altrimenti voi mi portereste via dalla mia famiglia») parte il processo nei confronti del socio del padre. Quando la minore compie atti di autolesionismo nel bagno della scuola per i Servizi è un «chiaro sintomo disagio legato all’abuso sessuale»: al via un processo civile. Peccato che, convocata dai carabinieri, la minore nega con forza: «Mi sono tagliata la braccia perché alcune amiche hanno tradito la mia fiducia, non c’è niente di sessuale». Insomma le frasi virgolettate contenute nelle relazioni e attribuite alle presunte vittime di abusi sessuali «non hanno avuto alcun riscontro – ha concluso Milano – Né abbiamo trovato gli audio o registrazioni di quelli che dovevano essere lunghi colloqui». l