Gazzetta di Reggio

Reggio

L’intervista

«La cucina italiana è buonissima, ma no alle bugie del marketing»

Jacopo Della Porta
«La cucina italiana è buonissima, ma no alle bugie del marketing»

Il professor Grandi smonta la falsa narrazione che avvolge alcuni prodotti tipici: «Bene la tradizione alimentare, ma senza innovazione si rischia il declino». Dal 17 al 21 luglio il docente sarà a Reggio Emilia con la Summer School dedicata all’ innovazione agroalimentare

11 luglio 2023
4 MINUTI DI LETTURA





Reggio Emilia Il suo libro “Denominazione di origine inventata” è un bestseller e il podcast che ha fatto seguito a quell’opera riscontra un grande successo. Il mantovano Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, è diventato celebre smascherando alcune bugie sui nostri amati prodotti tipici. Ironico, a tratti provocatorio, un’ampia intervista sul Financial Times dello scorso marzo gli ha procurato l’accusa di aver ridicolizzato la cucina italiana. Il professore, che non ha timori reverenziali quando si accosta alle nostre tradizioni gastronomiche, ha proferito giudizi che sono parsi blasfemi, come quello secondo cui la carbonara è «una ricetta americana» e il «vero Parmigiano è quello del Wisconsin» (chiariamo subito, non intende che è più buono quello made in USA o, peggio ancora, che sia nato oltre Oceano).

Tra pochi giorni Grandi sarà tra i docenti della Summer School “Innovazione e strategia dell’impresa agroalimentare”, promossa dall’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e dall’Università di Parma, che si terrà a Reggio Emilia dal 17 al 21 luglio presso il Cirfood district.

Professore, l’innovazione è un concetto che le è molto caro. Però la nostra buona tavola è quanto di più tradizionale possa esistere, no?

«In un settore come l’agroalimentare, servono tradizione e innovazione insieme, perché la tradizione senza innovazione porta al declino e l’innovazione senza tradizione porta alla perdita di identità. Dunque, bene la tradizione, ma non dimentichiamoci che questa va rinnovata, che i gusti cambiano, nascono nuovi ingredienti, ecc…».

Eppure quando si vuole certificare la bontà dei nostri prodotti tipici non troviamo niente di meglio che affermarne la loro antichità. Così alcuni produttori di vino tirano in ballo i Romani o i Greci, mentre dalle nostre parti i riferimenti sono a Matilde di Canossa. Cosa c’è di male?

«Nulla. Io passo per il nemico di questo storytelling, mi passi questa parola che non amo. Ma non è così. Se la poesia serve a vendere il prodotto, ben venga. Il problema è quando la narrazione diventa una gabbia che poi giustifica decisioni politiche ed economiche sbagliate. Il problema sorge quando diventiamo schiavi del nostro racconto, in nome di un passato spesso inventato».

Mi viene in mente la carne coltivata, sensazionalisticamente chiamata sintetica. In effetti siamo l’unico Paese al mondo ad averne vietato la produzione, bloccando quindi la ricerca.

«Non c’è alcun motivo per dire no a priori alla carne coltivata. Studiare è meglio che vietare, poi vedremo se questa carne è sostenibile. Questa posizione mi ricorda la preclusione contro gli Ogm».

Lei ha scritto che il «vero Parmigiano si fa nel Wisconsin». Ha un po’ esagerato, non trova?

«Ho il gusto della battuta, non mi nascondo. Ma non ho mai detto che il Parmigiano è nato nel Wisconsin».

Ha detto che in quello Stato americano, dove sono emigrati tanti italiani, si produce come si faceva in Italia in passato, mentre da noi nel frattempo c’è stata un’evoluzione.

«La mia provocazione non è fine a sé stessa. Volevo far capire che anche questo formaggio, buonissimo, si è innovato ed oggi è ancora più buono del passato. È vero che Boccaccio ne parla, ma il Parmigiano di oggi non è quello che si faceva ai tempi di Boccaccio».

I politici si scattano selfie con le porchette, assistiamo a battaglie sulla difesa dell’italianità che si sostiene sia minacciata. Gli amministratori sbandierano la superiorità delle rispettive tradizioni locali. Perché la gastronomia è diventata centrale nella narrazione politica?

«Questo Paese è andato in crisi di identità nel periodo del boom economico e pertanto dagli anni Settanta è alla ricerca di qualcosa a cui appigliarsi per trovare un’identità. Il cibo svolge questo compito. La politica ne fa una battaglia identitaria. “La nostra cucina è la migliore del mondo” ripetono. Certo, è ottima, ma non vedo perché dobbiamo raccontarci questa cosa per valorizzarla, non ne capisco il senso: se è ottima verrà riconosciuta per quello che è».

Da mantovano e da docente di Parma, come vede la cucina reggiana? Spesso qui si soffre un po’ il fatto che il Re dei Formaggi venga chiamato solo Parmigiano, omettendo Reggiano. Oppure è considerato mortificante che quando si parla di aceto balsamico si pensa subito a Modena e non al nostro balsamico tradizionale.

«La cucina reggiana è ottima ed è pari a quella di Parma, Mantova e Modena. Forse ha un problema di reputazione esterna, fa più fatica a farsi riconoscere. Personalmente, comunque, ritengo che queste cucine siano espressione di un’area più vasta, non circoscrivibile a una singola provincia».

Dunque non esisterebbe una cucina soltanto reggiana o modenese?

«Guardi, sto scrivendo un libro sulla cucina mantovana, per sostenere che in realtà non esiste…».

Ho capito cosa intende, ma non faccio fatica a prevedere che questa sua tesi provocherà un nuovo putiferio. Almeno nella vicina Mantova. l

© RIPRODUZIONE RISERVATA