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Guidetti, il guru del dialetto «Teniamo viva la nostra lingua»

Guidetti, il guru del dialetto «Teniamo viva la nostra lingua»

L’attore è protagonista di spettacoli sul palcoscenico da oltre 40 anni  «Il momento più bello? Distrarre gli spettatori dai problemi e farli divertire»

13 agosto 2023
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 Serena Arbizzi

“Ha sempre desiderato fare l’insegnante, ma non aveva la classe”. In questa frase che appare nella sua biografia, è racchiusa molta dell’ironia di Antonio Guidetti, 71 anni a settembre, attore comico, fondatore di compagnie teatrali e autore di numerose commedie, protagonista dei principali palcoscenici di Reggio Emilia e dintorni. Guidetti ha il potere di strappare un sorriso dietro il quale si apre il potere della riflessione: sulla storia di un elemento distintivo della tradizione, come il dialetto. E sul potere del teatro, come svela egli stesso.

Come e quando Antonio Guidetti ha incontrato l’arte della recitazione?

«Sin da quando ero molto giovane mi piaceva fare divertire la gente, ero parte della polisportiva Cooperatori che tutte le domeniche portava dei ragazzi a sciare: io raccontavo barzellette da Reggio Emilia al Monte Bondone, andata e ritorno. Poi ci siamo messi a fare recite che non erano altro che il racconto delle barzellette mettendole in scena. Successivamente, abbiamo fondato un gruppo di teatro sempre con la Cooperatori: si tratta di Teatro cinque. Il mio debutto risale ufficiosamente agli anni tra il 1974 e il ’75. Ufficialmente, al 7 dicembre 1979 all’ex Caserma Zucchi, quando insieme ad alcuni amici portammo in scena “In alto mare”, un testo in lingua di Slawomir Mrozek, autore dell’avanguardia polacca degli anni Sessanta».

Poi cosa successe?

«Il Comune di Reggio Emilia proprio in quegli anni organizzò corsi di teatro con Alessandra Galante Garrone, la quale, una sera, venne a vedere il nostro spettacolo e mi disse: “Guidetti, lei deve fare scuola di teatro perché è portato, è simpatico, e questo è il 75 per cento per un comico, indipendentemente dalle battute di repertorio”. Così, nel 1980, a Bologna ho fatto scuola di teatro».

E l’incontro con il dialetto a quando risale?

«Dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, avevo 15 anni e andai al cinema Italia di Villa Sesso per seguire una ragazzina che mi piaceva. Lei era andata a vedere una commedia di teatro dialettale, un testo arcaico legato alla cultura contadina. Subito dopo mi dissi: “Mai più andrò a vedere una commedia dialettale”. Sono trascorsi anni e una sera mi trovai alla festa dell’unità di Villa Argine, dove stavano allestendo una commedia dialettale. La festa era così piccola che dal ristorante, dove mi trovavo, si sentiva tutto. Quella volta, al contrario della precedente a Villa Sesso, mi resi conto che con il dialetto si esprimevano nozioni, sentimenti, stati d’animo in modo preciso, immediato, chiaro. Le qualità onomatopeiche del dialetto mi apparvero meravigliose. Da lì iniziai. Presi contatto con Auro Franzoni e mi cimentai nella scrittura della prima commedia. Sono passati oltre 40 anni da allora e non ho più smesso».

Cosa prova sul palco?

«Finché nostro Signore ci dà la possibilità di continuare mi diverto molto, soprattutto. Quando vedo che anche il pubblico si diverte è una grande soddisfazione. Siamo padroni di un testo che, quando saliamo sul palco, va buttato via. Non dobbiamo pensare a quello che dobbiamo dire, per essere credibili dobbiamo reagire in modo naturale. Amo l’improvvisazione sul palco, che significa capacità di reagire in modo credibile a qualsiasi cosa accada. Come nella vita. Noi non sappiamo quello che ci accadrà fra cinque minuti, ma siamo mossi dalla motivazione, che dobbiamo trovare anche sul palco per reagire in modo naturale e credibile».

Qual è il complimento più bello che si è sentito rivolgere?

«Il complimento più bello è trovare un anziano che mi dice: “Ho tanti problemi a casa, ma quando vengo a sentire lei non penso più a niente”».

Quali sono i progetti per il futuro?

«Abbiamo preso in gestione l’ex Sala Estense a San Martino in Rio e fondato una società di eventi, la Gugu eventi, dalle iniziali dei due soci, Guidetti e Guatteri. Cerchiamo di proporre delle iniziative, eventi particolari, corsi di teatro e anche viaggi, sulla base della mia esperienza: ho avuto un’agenzia in via Che Guevara a Reggio Emilia. Come agenzia, in collegamento con il tour operator Mosaico, eravamo diventati esperti in Indocina. Riproporremo oggi la stessa esperienza: il 27 novembre andremo in Thailandia. Si tratta della ripresa dei viaggi dopo l’interruzione dovuta alla pandemia, sempre con la Mosaico. Organizziamo anche gite domenicali, in giro per l’Italia con il pullman. Collaboro, inoltre, con alcune realtà che organizzano rassegne come il Rondò, o il “25 aprile” di Correggio».

Qual è il futuro del dialetto?

«Il nostro obiettivo è quello di mantenerlo vivo. Il dialetto non è lingua morta ma ferita grave. È legato alla cultura contadina che non esiste più. Con il dialetto quelli della mia generazione, o di chi resiste della vecchia guardia, hanno un rapporto particolare: lo sentono non solo come un modo di parlare e di pensare. Ci sono alcuni che pensano, infatti, in dialetto».

Si narra che ogni comico si porti dietro un bagaglio di malinconia.

«Quando un attore sale sul palco indossa una maschera dietro la quale ci sono esperienze, che sono la somma del nostro vissuto, di come diventiamo noi nella vita. Tra le cose che insegno c’è la maschera neutra, senza espressione, si indossa e si porta per mostrare che quando proviamo uno stato d’animo lo facciamo con tutto il corpo ed è così anche nella vita. Dietro questa maschera ci sono sentimenti quali dolore, sofferenze, gioie».

Qual è lo scopo della recitazione per lei?

«L’uomo ha sempre avuto bisogno di rappresentare, il teatro è rappresentazione della vita. Per chi lo fa è una necessità e per chi ne fruisce è bisogno di emozionarsi. Il momento più bello per un attore è quando si spengono le luci in sala e si accende la musica che annuncia l’inizio. E da spettatore il momento più bello è il momento in cui si attende che si alzi il sipario. Sono due momenti di batticuore più emozionanti che si possano vivere».

Chi tra i politici reggiani avrebbe un successone sul palco?

«I politici sono tutti dei bravi attori. Ed esistono delle scuole che insegnano a comunicare. Ci sono politici che quando parlano alla folla, si vede che sono preparati, il loro compito è quello di convincere. Hanno i ritmi giusti, dilatano i toni quando necessario, parlano sommessamente nel comunicare cose impopolari... Il sindaco Luca Vecchi, con il quale c’è un buon rapporto, è un bravo comunicatore».