Gazzetta di Reggio

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«Feci vedere la foto del bacio di Saman: ero come loro, oggi mi sento italiano»

Jacopo Della Porta
«Feci vedere la foto del bacio di Saman: ero come loro, oggi mi sento italiano»

Il fratello Alì in aula: «Sono cresciuto in quella cultura lì, poi in comunità sono cambiato»

04 novembre 2023
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Novellara «Sono cresciuto in quella cultura. Per questo ho mandato la foto del bacio. Per me quella cosa in quel momento era sbagliata. Non volevo che tutto il mondo la vedesse». Alì Haider ha messo ancora una volta il suo cuore a nudo. Protetto dagli sguardi degli altri imputati da un separé, affiancato dalla legale Valeria Miari, ha continuato a testimoniare in Corte d’Assise. E per la prima volta ha spiegato perché mostrò ad alcuni parenti la famosa foto del bacio che Saman e Saqib si scattarono nel gennaio 2021 - in occasione del loro primo incontro a Bologna – e che poi la sorella pubblico su Instagram. «In quel momento avevo la loro stessa mentalità». Una mentalità in base alla quale il padre non voleva che la figlia andasse a scuola, «perché c’erano i ragazzi e aveva paura che facesse amicizia».

La scelta dei termini, nonostante la non perfetta padronanza dell’italiano, è precisa: parla di «quella cultura» e di quello che pensava «allora». Adesso, Alì non è più lo stesso. Si fa chiamare “rebel”, in omaggio alla sorella, indossa gli orecchini, nonostante l’opposizione del padre, e ha il nome di Saman tatuato sulla pelle. «Da quando sono in comunità tutto è cambiato, mi sento di essere italiano». Lo dice con naturalezza e subito il pensiero corre alla sorella, che sui social usava lo pseudonimo “Italian Girl”.

Due anni e mezzo fa si arrabbiava perché sui giornali veniva pubblicata la foto della ragazza senza velo, perché «fin da piccola l’avevo vista sempre col velo». Ora c’è solo il dolore per averla persa.

A chi gli ha chiesto perché ha deciso di raccontare ora tutta la verità, compresi elementi mai emersi prima, ha parlato della sua sofferenza. «Ho tenuto dentro di me delle cose per le quali ogni giorno soffro. Ora voglio liberarmi. Di notte non riesco a dormire. Di giorno guardo le foto di mia sorella che sono attaccate in camera mia e sbatto la testa contro il muro. Allora penso che se dirò tutto mi libererò. Questa cosa me la porterò dentro di me tutta la vita, però mi fa bene sfogarmi, dire quello che è successo, anche per la giustizia di mia sorella».

Le Adidas bianche

Nella sua deposizione il diciottenne ha anche risolto un piccolo mistero, quello del mancato ritrovamento delle Adidas bianche con le quali la ragazza uscì di casa la notte del primo maggio 2021. «Dico una cosa che non mi è mai stata chiesta. Quando i miei genitori hanno preparato la valigia per andare in Pakistan mi ricordo che hanno messo dentro le scarpe di Saman. Sono sicuro al 100%, le hanno portate in Pakistan».

La violenza in casa

Alì non ha mai nascosto di aver provato sentimenti di riprovazione per la sorella quando andò via di casa, in Belgio, per incontrare un ragazzo conosciuto sui social, o in comunità, dopo aver denunciato la famiglia. «Il comportamento era sbagliato per me, pensavo come un genitore cresciuto in quella cultura lì».

La testimonianza si è fatta a tratti molto sofferta, ad esempio quando ha ricordato che il padre lo picchiava spesso. I segni di quella violenza li ha ancora addosso, tanto che ha mostrato una cicatrice sulla mano sinistra, che si procurò nel luglio 2021 quando la diciottenne era da poco tornata dal Belgio. «Aveva bevuto, voleva fare male a mia sorella. Mi sono messo in mezzo, ho preso il coltello che aveva in mano e mi sono fatto male, mi sono ferito mentre lo prendevo dalle sue mani».

Quando l’avvocata Teresa Manente, che assiste la parte civile Differenza Donna, gli ha chiesto se il padre picchiasse anche la mamma, ha avuto un crollo. «Non me la sento di rispondere». Allora, la presidente Cristina Beretti ha disposto una pausa. Poi, alla ripresa, ha confermato. «Picchiava un sacco mia mamma». Ad esempio, quando lei usciva di casa per cercare le lattine di birre del marito per buttarle. Ha ricordato le notti all’addiaccio, dentro un capannone dell’azienda Bartoli, quando Shabbar ubriaco li cacciava fuori di casa.

La ribelle

Quando il genitore alzava le mani, Alì, all’epoca poco più di un bambino, non aveva il coraggio di mettersi in mezzo. «Ero, come si dice? Un cagasotto. Mia sorella invece si metteva in mezzo, lei era più forte». La ribelle non aveva paura di rispondere e difendere la mamma. Non aveva paura di nessuno.

Eppure, quella mamma, che Saman ha difeso dalle violenze, non ha esitato a diventarle nemica. «Quando Saman fuggì in Belgio, papà diceva a mamma di piangere per finta per convincerla a tornare. Le faceva mettere la saliva sugli occhi». Anche quando la ragazza era in comunità a Bologna, i genitori cercavano in ogni modo di farla tornare indietro. In ballo c’era l’onore. «Mio padre diceva: “È scappata un’altra volta. Il nostro onore... se qualcuno sente in Pakistan sputa su di noi”».

Durante una videochiamata, quando la ragazza apparve sul monitor con i capelli biondi, Nazia «a bassa voce disse che la figlia sembrava una prostituta». Mentre il padre, «che ascoltava tutto, vedendola fumare diceva: “Appena torna la sistemo io”».

Nella cerchia familiare, lo status sociale, legato all’appartenenza a una casta di proprietari terrieri, è sempre stato un motivo di orgoglio. Per questo Saqib è apparso fin da subito «troppo povero» e «di un livello più basso».

La fuga

Alì ha anche raccontato la fuga da Novellara dopo il delitto. «Zio mi ha detto di prendere i vestiti, ha chiamato i miei genitori in Pakistan e ha detto che dovevamo scappare perché avevano preso i nostri telefoni. Ma papà gli ha detto che dovevamo stare lì e zio gli ha risposto che lui era in Pakistan e non aveva problemi, ma a noi in Italia ci avrebbero potuto prendere. Quella sera abbiamo preparato le nostre cose e il giorno dopo abbiamo preso le bici. Da Novellara abbiamo pedalato fino a Gonzaga da doveva abbiamo preso il treno per Modena e poi Como, dove abbiamo passato la notte in casa di un conoscente. Da lì l’indomani siamo partiti per Imperia».

In Liguria, poi zio e nipote vennero fermati e il minorenne trattenuto in una comunità. Nel suo racconto il fratello di Saman è tornato a puntare il dito contro il cugino Amjad Arfan (la sua posizione è stata archiviata a marzo) e lo zio Zaman Fakhar (mai indagato, anche se per la Corte avrebbe dovuto esserlo). «Per me sono più colpevoli, non più dello zio Danish, ma più dei cugini». Colpevoli perché davano «cattivi consigli» su come risolvere il problema della la ribellione della figlia. Invece, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, entrambi imputati, hanno «aiutato mio zio solo per rispetto». Una obbedienza spinta fino alle estreme conseguenze. l