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Violenza contro le donne

Reggio Emilia, violentata vicino a casa: «Ho avuto paura di morire, ma ora posso dire di essere più forte»

Ambra Prati
Reggio Emilia, violentata vicino a casa: «Ho avuto paura di morire, ma ora posso dire di essere più forte»

La testimonianza di una 30enne reggiana vittima di stupro: «Chi usa la forza non è un uomo»

25 novembre 2023
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Reggio Emilia. «Durante lo stupro ho pensato di morire. Ho pensato: questi sono i miei ultimi istanti di vita. Con il senno di poi, non solo sono sopravvissuta ma posso dire di essere diventata più forte e più sicura di me stessa: ciò che mi è capitato, pur nella negatività, mi ha fatto scoprire di avere risorse insperate». Ciò che è accaduto a Claudia – il nome è d’invenzione, per ovvie ragioni –, quando aveva 24 anni, è l’incubo di ogni donna: una mano sulla bocca durante la consueta passeggiata nel quartiere intorno a casa, uno sconosciuto che ti afferra e ti violenta dietro alle sterpaglie. Una scena da film, impensabile in una città come Reggio. Difatti la violenza sessuale aggravata di via Petit Bon, il 22 luglio 2018, è rimasta un unicum nella cronaca cittadina dell’ultimo decennio.

Claudia oggi ha 30 anni, è una donna e in occasione della giornata contro la violenza di genere ha deciso di raccontare la sua storia. Una storia che ha pochi elementi in comune con la casistica classica. «Mi ha aggredito un perfetto sconosciuto, mentre ero vestita in modo tutt’altro che attraente: la situazione non aveva nessuno degli stereotipi che continuano a circolare sul tema».

Era fine luglio, pieno giorno. «Sono uscita di casa alle 20.30 per una camminata nel quartiere dove sono nata e cresciuta: c’era luce. Conoscevo bene la zona, a me familiare, e andavo spesso da sola. All’improvviso ho sentito da dietro una mano che mi tappava la bocca. Lì per lì ho pensato a uno scherzo: magari era un amico, conoscevo tutti». Invece era uno sconosciuto che l’ha trascinata sul lato della strada: un giovane alto e dagli occhi chiari, nella colluttazione lei lo vede in faccia. «Sono figlia di un carabiniere, lasciami andare o te ne pentirai», è la frase che improvvisa Claudia. «Chissà come mi è venuta in mente... Ho provato a difendermi, a urlare, ma non passava nessuno. Tutto inutile. La sua forza era maggiore della mia».

Claudia si ritrova a terra con lui a cavalcioni. «Subito mi ha obbligato a un rapporto orale, poi la violenza sessuale». Anche i termini sono quelli di una persona che ha fatto il callo ai verbali e ai documenti giudiziari. «Nella mia testa mi ripetevo: devo ricordare i particolari». Dopo lo stupro lo sconosciuto si è rivestito mentre lei cercava il cellulare, caduto a terra. «Lui l’ha visto prima di me, l’ha afferrato e mi ha minacciato con poche parole in un italiano stentato: se non stai zitta ti uccido, “coltello dottore capisci?”», ha detto lo stupratore indicando un marsupio facendo intendere di avere un’arma. «Ho chiuso gli occhi un attimo. Lui ha iniziato a scappare». Rimasta sola, Claudia si riveste e corre a casa. «Mi sono attaccata al campanello, mi hanno aperto i miei genitori: ero sconvolta e tumefatta, graffi ovunque, mi aveva dato dei pugni».

Quindi l’arrivo in ospedale, la presa in carico dell’équipe di medici al femminile specializzati in abusi su minori e donne, la Squadra Mobile più volte in reparto a mostrarle foto segnaletiche. Claudia dimostra una memoria per i particolari che stupisce gli inquirenti: oltre all’identikit, la cicatrice sulla fronte dell’aggressore sarà fondamentale. «Si è scoperto poi che quella ferita se l’era procurata da solo: pochi giorni prima si era presentato al pronto soccorso, avevano i suoi dati».

L’impronta del pollice rimasta sul cellulare, la cicatrice e soprattutto il Dna dello stupratore sui vestiti e sotto le unghie di Claudia permetteranno di catturare il responsabile in tempi record e di avere prove inoppugnabili. Claudia passa due giorni in ospedale («Ogni volta che cambiavo reparto dovevo raccontare l’accaduto») e per un anno usufruisce del supporto psicologico al Centro Antiviolenza di Nondasola. «Mi è stato molto utile, lo consiglio, si può anche mantenere l’anonimato». Qualche ripercussione è stata inevitabile. «Sono più diffidente. Quando vado a camminare da sola (non in quel parco, ho cambiato casa), porto un bastone. Mi guardo le spalle. Quando esco in compagnia e sento un accento dell’Est trasalisco e mi irrigidisco».

Tuttavia lo stupro non ha condizionato il suo rapporto con l’altro sesso. «All’epoca non avevo un fidanzato, oggi sì: ha dimostrato tatto, rispetto e fiducia. Sa tutto, sa anche che adesso sto raccontando la mia storia: è d’accordo, pensa che possa essere utile. A gennaio andremo a convivere. E magari il matrimonio, vedremo». Non pensa, Claudia, che tutti gli uomini siano uguali. «Anzi l’esperienza che ho passato mi ha fatto capire chi è veramente degno di chiamarsi uomo e chi non lo è».

A distanza di sei anni Claudia va spesso a salutare «il dirigente della Mobile, Guglielmo Battisti, e il medico legale Maria Stella D’Andrea, come una seconda madre per me. Ho in progetto di scrivere un libro, ma per ora è in stand by». Prevalgono i progetti sentimentali e di lavoro. «Vorrei fare carriera nel settore ricerca e sviluppo agroalimentare».

Claudia è cresciuta e riconosce a stento la 24enne di allora. «Se ripenso a com’ero, molto insicura, penso che non tutto viene per nuocere. Quando mi sento inadeguata, mi ripeto che se ce l’ho fatta dopo lo stupro posso farcela di fronte a qualsiasi prova. Ho imparato a volermi bene, so chi voglio al mio fianco e quant’è importante l’indipendenza anche economica».

Il passato tuttavia fa capolino sotto forma di buste verdi, da ritirare di persona al comando carabinieri. «Ogni volta che l’aggressore condannato ottiene uno sconto di pena per legge arriva la notifica alla controparte, cioè a me: quattro buste in due anni, sconti di buona condotta. Diventano tutti buoni, in carcere. So che l’anno prossimo lui sarà libero: in teoria dovrebbe tornare in patria, in Ucraina, dove c’è la guerra. Non ho paura, ma provo rabbia: questi continui sconti fanno cadere le braccia. Le forze dell’ordine fanno un gran lavoro, che però in gran parte viene vanificato dal sistema giudiziario. Sul tema violenza si invocano condanne sempre più alte: basterebbe che fossero certe».

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