«Giustificare i propri figli non significa educarli»
Ecco l’evoluzione degli indifferenti di Moravia
Reggio Emilia I ventenni dei primi decenni del Novecento, descritti da Alberto Moravia nel celebre romanzo “Gli indifferenti”, erano il risultato di una società privata della libertà: l’Italia fascista degli anni Venti.
Oggi, invece, vogliamo rappresentare l’epoca dell’emancipazione” mentre siamo afflitti da problemi simili, se non più gravi di quelli di un secolo fa. Che l’abitudine, l’ossessione e l’abuso di tale concetto ne abbiano logorato il significato?
Al di là dell’oblio del peso della parola, il limite della società del 2023 risiede proprio in ciò che già iniziava ad appestare il mondo descritto da Moravia: la tendenza a giustificare.
La più totale libertà, l’assenza di vincoli e, nel profondo, di valori, hanno estremizzato l’individualismo che caratterizza il presente.
E i professori sono sempre più chiamati a sostituirsi alle famiglie che l’educazione, comportamentale e sentimentale, l’hanno rimpiazzata con la giustificazione, proteggendo i ragazzi da tutto e da tutti tranne che da loro stessi.
Ciò partorisce individui freddi, violenti, superficiali, che faticheranno ad inserirsi nella società, in un mondo del domani che sarà sempre più popolato da anziani.
Perché sono stati “educati” con tanti “sì” al posto degli abbracci e dei “no” veramente necessari.
Il contesto in cui si cresce contribuisce purtroppo all’inaridimento della persona: la rapidità con cui un’informazione può essere copia-incollata senza alcuno sforzo è per molti, giovanissimi e non, una comoda alternativa al dovere.
Purtroppo questi sotterfugi impediscono un vero sviluppo e, nel tempo, rimpiazzeranno la creatività umana.
Inoltre il flusso ininterrotto di informazioni, che da anni vende la storia, determina un generale disinteresse per le “novità” e l’assuefazione alla negatività.
Conseguenza della nostra tanto idolatrata libertà è la rassegnazione al pessimismo che sempre più spesso descrive i giovani più che i vecchi.
Molti di noi oggi studiano, lavorano e si divertono con un sorriso amaro in volto.
Concepiamo la vita come un destino da subire, triste e illusorio sin dalla nascita.
Siamo “giovani vecchi”, privi dell’energia dei nostri anni, più negativi dei commenti degli anziani quando rimpiangono il passato. Siamo la generazione che si volta davanti al presente e ride con amarezza quando dice sarcasticamente «ma quale futuro …?».
Siamo coloro che scappano dal proprio Paese nonostante non vi sia una guerra.
Non ricevendo un’educazione sentimentale, soffriamo ma ci adattiamo passivamente, diventando adulti con il bagaglio emotivo di studenti e studentesse di quarta elementare perché fin dalla nascita considerati i nuovi deboli.
Sin da piccoli veniamo chiusi in una bolla protettiva da cui alla fine o scappiamo per l’esasperazione di non poter far nulla o soffriamo per l’abitudine e la paura verso un mondo sconosciuto.
Il sentimento di fondo è il desiderio di resa: siamo stati cullati nel pessimismo ed ora, divenuti giovani adulti, che sentiamo a pelle quanto marcio vi sia nella società, desistiamo perché lo sforzo necessario per cambiare le cose è troppo grande e nessuno ci ha insegnato ad agire.
Quando invece sorge un pensiero d’azione, sono l’indifferenza e l'egoismo, appresi sin da piccoli, a ucciderlo.
Il presente è malato, così tanto che non si sa più da dove iniziare a curare il “paziente”. Ma bisogna pur iniziare però se non si vuole avere “una” vita sulla coscienza. Eppure, nonostante tutta la libertà in cui sguazziamo, sacrifico idee e parole perché possiate ascoltarmi senza annoiarvi.
*Studentessa del liceo Moro