Gazzetta di Reggio

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Femminicidio

«Tutte le azioni svolte da Genco erano mirate a uccidere Cecilia»

Serena Arbizzi
«Tutte le azioni svolte da Genco erano mirate a uccidere Cecilia»

Le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello

18 gennaio 2024
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Reggio Emilia Tutte le azioni di Mirko Genco avevano un unico obiettivo: quello di uccidere Cecilia. Lo dicono le motivazioni con cui la Corte d’Appello di Bologna ha innalzato a 30 anni la pena a carico di Genco, condannato per il femminicidio della sua ex fidanzata Juana Cecilia Hazana Loayza, avvenuto tra il 19 e il 20 novembre del 2021 nel parco di via Patti a Reggio Emilia. La sentenza della Corte d’Assise d’appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado, aggiungendo nove mesi in più: la condanna è passata da 29 anni e tre mesi a 30 anni, il massimo previsto, escludendo l'ergastolo. La richiesta della Procura di Reggio Emilia era stata proprio l’ergastolo.

Le motivazioni della sentenza si addentrano in un delitto che ha sconvolto l’opinione pubblica per la sua efferatezza. I passaggi in cui viene riepilogato il percorso che ha portato all’appello, presentato sia dal pubblico ministero, sia dalla difesa dell’imputato, rappresentata dall’avvocato Vincenzo Belli, riportano come Genco abbia mentito su più circostanza, senza confessare tutto. «Genco aveva in passato violentato e molestato altre donne e tenuto in aula un atteggiamento provocatorio e privo di alcuna resipiscenza». Non aveva manifestato quella consapevolezza che porta al pentimento, in sostanza, secondo quanto scrive il giudice d’appello.

Genco ha fratturato l’osso ioide, presente nel collo, a Cecilia: azione che avrebbe potuto determinare la morte della giovane, «lasciata a terra al freddo, agonizzante e con le difficoltà a deglutire e a respirare conseguenti alla grave lesione subita», si legge nell’atto. Genco, «evidentemente temendo che Cecilia potesse sopravvivere, dopo avere tentato di strangolarla, le sottraeva le chiavi di casa e qui si recava per procurarsi uno strumento offensivo evidentemente molto più letale delle proprie mani, con il quale terminava l’operazione, purtroppo con successo. È dunque chiaro come tutte le azioni fossero dirette verso un unico scopo e costituissero diverse scansioni di un’unica condotta criminosa (...). Il reato è dunque unico, scandito in varie fasi e sfociato in quel terribile atto, al quale tutte le azioni richiamate erano dirette».

La corte ha accolto l’appello del pubblico ministero riguardo alla rapina, «pienamente configurabile». «Anche se la violenza verso la donna non era diretta a sottrarle le chiavi – dice la Corte d’appello – è del tutto evidente come tale sottrazione, realizzata una volta che la povera vittima era stata ridotta in stato d’incoscienza, ben concreta la fattispecie contestata».

La corte accoglie anche l’appello della difesa quando lamenta l’errore di calcolo quanto ai reati di evasione.

Il giudice entra nel vivo affermando che Genco era «incapace di accettare la decisione della donna» e «ne violava la sfera sessuale nel peggiore e più umiliante dei modi, nel contempo l’aggrediva e le stringeva il collo, le rubava le chiavi, si introduceva nella sua abitazione incurante della presenza della madre di Cecilia e soprattutto del figlio piccolo e, infine, la pugnalava, così, tra l’altro, privando quest’ultimo, che diceva di amare, della madre. Non solo, ma questa terribile condotta si collocava al termine di un iter giudiziario nel quale all’imputato era stata data una possibilità di recupero che egli non ha saputo cogliere, facendo l’uso peggiore della libertà riacquistata e dimostrandosi, oltre che crudele, inaffidabile. Questa Corte – scrive il giudice d’appello – non si nasconde dunque che gli elementi fortemente negativi non solo esistono, ma sono connotati da una particolare intensità».

Non basta, infatti, la storia personale dell’imputato, «effettivamente terribile, contrassegnata di abbandoni e dall’uccisione della madre a opera del compagno». «Ciò non ne sminuisce la responsabilità: Genco, come messo in luce dal perito, è capace di intendere e di volere, poteva scegliere un comportamento diverso, ha sprecato l’opportunità di recupero che gli era stata offerta». Le considerazioni sul passato di Genco soccombono rispetto «agli elementi fortemente negativi che pure si sono richiamati» nell’atto.

La Corte ritiene, quindi, di aggiungere l’aumento di pena legata anche alla rapina, arrivando alla sanzione complessiva di 30 anni. E la pena relativa all’evasione continuata è stata corretta in otto mesi di reclusione.

L’avvocato difensore Belli, sta valutando se presentare o meno ricorso. l