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Il vero prezzo dei nostri vestiti low cost lo stanno pagando i lavoratori sfruttati

Pavincika Sutharsan*
Il vero prezzo dei nostri vestiti low cost lo stanno pagando i lavoratori sfruttati

La produzione di questi capi, infatti, avviene sempre in Paesi in via di sviluppo, in cui le condizioni dei lavoratori sono ben diverse da quelle degli europei.

23 gennaio 2024
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C’è Shein, l’azienda cinese che ha una tra le app più scaricate in assoluto con oltre 40 milioni di download. Zara, la catena di abbigliamento da 20 miliardi di dollari di vendite annuali. Poi Primark, il rivenditore internazionale di abiti e oggettistica da oltre 400 negozi in tutto il mondo.

Si pensa spesso a loro quando si parla di fast fashion, ovvero quel settore dell'industria tessile e non solo, ormai in crescita esponenziale, che realizza indumenti a prezzi molto ridotti.

I venditori di questi colossi mettono sul mercato prodotti ispirati alle collezioni dell’alta moda a prezzi contenuti, rinnovandoli costantemente e sostituendoli, in tempi rapidissimi, con altri di stile differente, sollecitando i consumatori a comprare continuamente nuovi capi per essere al passo con le ultime tendenze. I vestiti e gli accessori prodotti, d'altra parte, presentano una qualità sempre inferiore, si deteriorano velocemente, inducendo ad un aumento continuo degli acquisiti.

Secondo l’associazione Dressthechange, che si impegna a diffondere la cultura della moda etica e sostenibile, i nuovi capi acquistati ogni anno nel mondo sono 80 miliardi e i litri di acqua necessari alla loro produzione sono in numero enorme: basti pensare che per realizzare una t-shirt ne servono 2700. Come è possibile dunque che il suo prezzo sia bassissimo? A causa dello sfruttamento nelle fabbriche. La produzione di questi capi, infatti, avviene sempre in Paesi in via di sviluppo, in cui le condizioni dei lavoratori sono ben diverse da quelle degli europei. In Bangladesh i lavoratori dei laboratori tessili sono costretti a lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno in condizioni pericolose. Guadagnano in media 33 dollari al mese (al di sotto dei 60 del salario minimo di sussistenza).

Dal 1990 più di 400 operai sono morti e migliaia sono rimasti feriti nei 50 più grandi incendi avvenuti in queste fabbriche. Le lavoratrici, inoltre, spesso subiscono molestie sessuali e non hanno diritto alla maternità. E tutti i lavoratori sono esposti costantemente a sostanze chimiche tossiche e cancerogene, mettendo in pericolo la loro stessa vita. Ma anche la nostra lo è. Un’indagine di CBC Marketplace ha rivelato che alcuni prodotti di Shein contengono piombo, PFAS e ftalati.

Una giacca per bambini esaminata conteneva quasi 20 volte la quantità di piombo considerata sicura. Inoltre, Greenpeace ha denunciato che alcune sostanze chimiche utilizzate nei prodotti superano i limiti di legge dell’Unione Europea. E la pelle, a contatto prolungato con queste sostanze, le assorbe e le mette in circolo nel nostro organismo. Un’altra conseguenza grave si ripercuote sul mondo in cui viviamo.

Come ha sottolineato Il Sole 24 Ore, «i camion pieni di vestiti vengono svuotati in discariche, spesso anche luoghi aperti, dall’altra parte del mondo, come nel deserto di Atacama nel nord del Cile o nelle nazioni africane del Ghana e del Kenya». Dalla produzione di indumenti fast fashion vengono rilasciate nell’ambiente microplastiche e Co2: lo scenario è davvero preoccupante. Come possiamo diminuire i danni provocando dal fast fashion? 

*Studentessa del liceo Moro