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Inchiesta Minefield

False fatture, ecco i nomi degli arrestati e dei commercialisti coinvolti

False fatture, ecco i nomi degli arrestati e dei commercialisti coinvolti

Operazione Minefield: a Reggio Emilia smantellata un’associazione a delinquere finalizzata ai reati fiscali. Sono 108 gli indagati. Dodici gli arrestati

21 febbraio 2024
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Reggio Emilia Un’associazione a delinquere – non di stampo mafioso – con base a Reggio Emilia e in Emilia-Romagna, specializzata nel servizio delle fatture false per mezza Italia, con reati fine in prevalenza di natura fiscale (tranne la tentata estorsione): frodi fiscali, indebite percezione di risorse pubbliche, reati fallimentari, autoriciclaggio e riciclaggio internazionale.



Sono i reati contestati dalla Procura di Reggio Emilia nell’ambito dell’operazione Minefield (campo minato), scattata all’alba di martedì 20 febbraio, che ha visto impegnati 350 militari reggiani tra il Gruppo della Guardia di Finanza e i carabinieri del Comando provinciale. In totale sono state emesse 12 misure cautelari di arresto, un obbligo di dimora e tre misure interdittive (divieto temporaneo di esercitare l’attività professionale o imprenditoriale) nei confronti di due commercialisti Gianfranco Grande e Roberto Vecchioni  e un imprenditore Pietro Penserini.


In carcere sono finiti i fratelli Samuel e Gionata Lequoque, Leonardo Ranati e Spyridon Lempesys

Sono scattati invece gli arresti domiciliari per Francesco Campaniello, Stefania Greco, Giovanni Battista Moschella, Giambattista Di Tinco, Emilio Francesco Anastasio, Enrico Cavalli, Guido Cigni, Federico Angelo Ciasullo.

Un sodalizio formato da calabresi originari di Cutro, professionisti calabresi e campani, reggiani e foggiani. Dicevamo che non si tratta di mafia, ma alcuni nominativi ricorrono in recenti indagini di Bologna e di Reggio (in primis Billions, l’operazione che ha “smontato” il meccanismo delle fatture false ben imparato dai reggiani, difatti uno degli arrestati era già detenuto per Billions) con parentele con ’ndranghetisti.

Questo l’esito dell’ordinanza firmata dal gip Luca Ramponi che ha analizzato un corposo materiale d’inchiesta, iniziata nel 2019 nel pieno periodo Covid da uno spunto intuito dalla Tenenza di Scandiano e portata avanti –grazie all’uso di trojan e a faldoni su faldoni di intercettazioni telefoniche e ambientali – per oltre due anni, scremando un quadro probatorio più ampio. In totale gli indagati sono 108 e 81 le società coinvolte, concentrate per la maggior parte a Reggio e a Modena, Parma e Bologna, che emettevano le fatture false per uso proprio oppure offrivano il servizio – richiestissimo dagli imprenditori – ad altre 251 società esterne: gli utilizzatori finali delle fatture false che usufruivano dei servigi del sodalizio (69 di queste avrebbero così evaso l’Iva per un totale di sei milioni). Ben si comprende come le perquisizioni e i sequestri siano scattati in contemporanea in altre sette regioni: Calabria, Campania, Toscana, Lazio, Lombardia, Marche e Veneto.

Su disposizione della Procura è stato effettuato un sequestro di beni per circa 10 milioni di euro, ma il giro d’affari illecito secondo una stima superava i 30 milioni. Il principio è quello del “follow the money”, ovvero “segui i soldi”: in questo caso denaro in nero che i cani cash dog della Finanza hanno fiutato nelle abitazioni (trovati circa 400mila euro in contanti).

Ma sono saltati fuori anche gioielli, Rolex e incidentalmente perfino una partita di droga: un arresto in flagranza, per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, è stato effettuato perché sono stati trovati durante una perquisizione 18 chili di hascisc e 4 chili di marijuana.

L’organizzazione, secondo gli inquirenti, era specializzata soprattutto nell’emissione di fatture false per operazioni inesistenti, secondo uno schema ormai consolidato. Le società cartiere venivano create con l’acquisizione di imprese davvero esistenti poi trasformate per le finalità illecite oppure con la nascita di società fittizie; il secondo step vedeva l’intestazione delle società a prestanomi prezzolati; a questo punto si cominciavano a produrre in modo seriale fatture false o per uso interno al sodalizio oppure venivano individuate aziende esterne, all’apparenza sane e insospettabili, che ricevevano bonifici per importi pari a quelli delle fatture.

Nel circolo vizioso il denaro doveva “tornare indietro” in contanti (cioè veniva restituito e consegnato da terzi in nero, detratta la percentuale del servizio illecito) oppure prendeva la via dell’estero, soprattutto in Bulgaria, attraverso un sistema di scatole vuote per essere “ripulito” e monetizzato su conti esteri con la finalità di essere reintrodotto in Italia. In alcuni casi il sodalizio si affidava ai classici “spalloni”, ovvero persone che portavano fisicamente soldi all’estero; reinvestiva questo fiume di denaro nell’acquisto di diamanti, gioielli preziosi e auto di lusso, acquistate in territorio austriaco e poi noleggiate sul territorio reggiano; o ancora spostava su conti correnti.

Tra gli utilizzatori finali, categoria definita eterogenea e trasversale, c’era di tutto, a riprova della “fame” del servizio: si va dai settori della cantieristica alla manutenzione di macchinari industriali e di pulizie, dal noleggio di auto al commercio all’ingrosso. A latere del filone principale i militari hanno scoperto anche frodi al welfare statale: alcuni degli indagati, mentre continuavano a gestire i loro affari illegali, risultavano disoccupati e percettori dell’indennità di disoccupazione Naspi, per un valore di circa 60mila euro. Alcune cartiere inoltre hanno addirittura percepito contributi pubblici stanziati durante l’emergenza Covid, per un importo di circa euro 72mila euro.