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L’intervista

L’uomo che vive da tre secoli: Piergiorgio Paterlini si confessa

Jacopo Della Porta
L’uomo che vive da tre secoli: Piergiorgio Paterlini si confessa

“Confiteor” è l'ultimo libro dello scrittore di Reggio Emilia. I ricordi su Cuore, Pier Vittorio Tondelli, Luciano Ligabue. Ma avverte: «Non è un’autobiografia»

29 aprile 2024
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Reggio Emilia Ci vuole coraggio per mettersi a nudo e consegnare ai lettori aspetti anche molto intimi della propria vita. Ma anche generosità, perché soltanto un autore che pratica un’onesta introspezione consente agli altri di poter trovare pezzi di sé tra le pagine del suo libro. Coraggio e generosità che si ritrovano in “Confiteor”, l’ultima opera che lo scrittore e giornalista reggiano Piergiorgio Paterlini ha appena dato alle stampe per Piemme-Mondadori.

Confiteor, cioè, confesso in latino. Nel senso della preghiera penitenziale? O nel senso che racconta cose che non ha mai scritto prima?

«Gli ambienti religiosi non c’entrano, anche se sono molto presenti nel libro. Confesso nel senso “vi dico delle cose di me”. Volevo dare un senso di intimità fin dal titolo e anche la foto di copertina credo contribuisca a questo».

Non è semplice definire a quale genere questo libro appartenga.

«Chiarisco subito; non è un’autobiografia. Non lo è perché in realtà ho lasciato fuori molti fatti fondamentali della mia vita. L’autobiografia è una specie di curriculum raccontato. Per dirne solo una, non parlo neanche di tutti i miei libri. Se ne cito qualcuno è per dire qualcosa di me, perché sono pezzi di un percorso. Cerco di raccontare con dei fatti, non con dei flussi di coscienza, l’uomo che sono oggi e come lo sono diventato. È un metodo su come una persona di 70 anni può rileggere la sua vita, la sua etica, i suoi valori, le scelte, e come e perché le ha fatte. In un certo senso, la cosa che ci va più vicina è un romanzo di formazione».

Lei si definisce un uomo che è vissuto in tre secoli diversi.

«Pochi anni fa, andando nelle scuole a parlare ai ragazzi, ho avuto un’intuizione. Nella mia vita ho avuto una fortuna pazzesca. In settanta anni ho vissuto tre secoli. I miei primi sei o sette anni, nel mondo contadino di Castelnovo Sotto, potevano essere il 1880. Poi ho vissuto tutto il Novecento e ora un quarto di questo nuovo secolo».

Mi colpiscono le pagine sui suoi genitori. Lei non nasconde nulla. Il poco affetto ricevuto dalla madre, la durezza con la quale suo padre reagì quando apprese che era omosessuale…

«In ciò che racconto c’è spudoratezza, ma non c’è l’ego che si mette al centro. Scrivo delle cose, come dire, “forti”, ma ho ritenuto che fosse fondamentale farlo, visto che ho scelto di scrivere una confessione. Talvolta ho fatto anche fatica a scriverle».

In questo suo scavare ha scoperto di non sapere niente dei suoi nonni, un vero e proprio buco nero della sua vita.

«È stato uno shock, perché sono una persona che ritiene di essere molto legata alle sue radici. Improvvisamente, scrivendo il libro, mi sono reso conto che non sapevo niente delle mie radici familiari».

C’è molta Reggio in “Confiteor”. Compaiono il libraio Nino Nasi, Pier Vittorio Tondelli, monsignor Camillo Ruini (che non fu molto generoso con lei…), lo psichiatra Giovanni Jervis, Luciano Ligabue, di cui lei ha editato i libri. La Reggio di alcuni decenni fa appare più vivace dal punto di vista culturale di quella di oggi. Si sa spiegare il motivo?

«C’era una grande vitalità. Ma ricordiamoci che la globalizzazione c’era già allora. Reggio aveva quella vitalità perché il mondo aveva quella vitalità e a Reggio arrivavano gli echi, persino nel seminario che per alcuni anni ho frequentato. Noi respiravamo il mondo degli anni Sessanta e Settanta».

Alla fine, dopo esperienze in altre città, lei ha scelto di restare qui. Devo desumere che ci sia un legame forte.

«Guardi, anche l’unione civile con Marco, la prima celebrata in Italia nel 2016 dopo l’approvazione della legge, è stata un regalo a Reggio».

Un gesto politico e civile, di grande rilevanza, dato che lei è l’autore di “Ragazzi che amano ragazzi”.

«L’abbiamo fatto anche per noi, ma soprattutto per i diritti di tutti. Voleva essere un segno di speranza. Quanto al mio libro del 1991, ci sarà una nuova ristampa con Einaudi a settembre: è indubbiamente il mio long seller».

Come possiamo definirla politicamente? Comunista? Anarchico?

«Se proprio vuole una definizione, mi piace definirmi orgogliosamente anarco-libertario. Citando Camus, se c’è un filo conduttore nella mia vita è il dolore per l’ingiustizia subita dagli altri, per le diseguaglianze e per le discriminazioni».

La stessa insofferenza che da cronista della Gazzetta di Reggio la spinse a mettere nero su bianco alcune frasi omofobe che aveva sentito pronunciare da due inviati Rai. E scoppiò un putiferio. Lasciamo ai lettori il gusto di conoscere i dettagli della storia...

«Concordo».

Lei è nato in una famiglia cattolica e ha frequentato il seminario fino al terzo anno delle superiori. La religione e Dio sono temi sui quali si interroga in queste pagine.

«Non c’è la fede in questo libro ma c’è tanto Dio, forse inaspettatamente per chi mi conosce adesso. Dio torna nella mia definizione di agnostico praticante. Torna nelle tante domande che mi pongo. Torna quando mi occupo di fisica quantistica, del problema della coscienza, i temi che la scienza e le neuroscienze in particolare maggiormente studiano oggi».

A un certo punto nella sua storia compaiono i libri. Possiamo dire che le hanno cambiato e salvato la vita?

«I libri, insieme ad altre cose, mi hanno salvato. I libri sono tra gli assoluti che hanno cambiato la mia vita. C’è un mistero: non so come sia nata quella passione, visto il contesto nel quale sono nato, dove di libri non ce n’era neanche uno. Però, prima di vedere un libro sapevo già che volevo fare lo scrittore. Ci sono cose di me che non ho capito, questa è una di queste. Un miracolo laico».

C’è anche lo sport. Lei è tra i pochi ad aver detto a Kobe Bryant: “Dai, vai tu in campo”.

«Il padre Joe giocava a Reggio e il futuro Black Mamba era un bambino. Quel giorno la Pallacanestro Reggiana stava giocando male e feci una battuta a Kobe che era sulle gradinate vicino a me. Al di là di questo episodio, parlo del basket per spiegare cosa mi ha insegnato, cioè che nella vita le cose possono cambiare fino all’ultimo minuto e non bisogna mollare mai. Mi ha insegnato anche a vedere il tempo in un modo diverso. Nel basket il tempo viene fermato, i tifosi sanno quanto può durare un minuto».

Il ciclismo è un’altra passione.

«Parlo di un campione, che magari oggi non è noto a tutti, come Gianni Motta. Ne scrivo per trasmettere un pensiero: nell’adolescenza è importante avere un mito. È una delle cose che ti protegge dal dolore. Il dolore dell’adolescenza è un tema che ho trattato in “Bambinate” e sul quale torno spesso».

Soffriva di attacchi di panico, eppure ne ha fatta di strada. Il coraggio di buttarsi non le mancava. Come è arrivato a “Cuore” ne è un esempio.

«Telefonai a Michele Serra per proporgli di unirmi a lui e Andrea Aloi nella fondazione del settimanale…».


Così lasciò il gruppo L’Espresso-Repubblica e si trasferì a Milano, con pochissime garanzie.

«I treni passano veloci. Bisogna salire in corsa o niente. La tempestività di certe scelte fa la differenza».


Come si aspetta sarà accolto “Confiteor”?

«Mi aspetto reazioni forti, in un senso o nell’altro. Alcuni passaggi potrebbero scandalizzare o turbare. Ma c’è una cosa che spero fortemente…».

Quale?

«Che spinga i lettori a interrogarsi sulla loro vita e intraprendere un loro proprio percorso introspettivo».  l

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