«La nostra montagna è la risorsa più preziosa»
Alberto Cenci ha fondato la casa editrice Antiche Porte le cui pubblicazioni valorizzano territori e culture dei luoghi
Alberto Cenci, laureato in scienze forestali e insegnante presso l’istituto S. Pertini 2, fonda nel 1997 Antiche Porte, casa editrice dedicata ai territori e alle culture dei luoghi, ciò per valorizzarne e scoprirne le peculiarità, come cita il sito ufficiale. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il suo rapporto con il territorio reggiano.
Alberto, apro la nostra intervista con una domanda semplice. Cos’è per lei la montagna?
«Io nasco come ricercatore territoriale, la montagna per me è maestra di vita. Certe persone dicono di sfidare la montagna, per me la “sfida” è solo il riflesso di un’insicurezza. Chi sfida non ha capito nulla: la montagna è parte di noi».
Come è nata la casa editrice Antiche Porte?
«Il mondo dell’editoria è un vero casino, a Reggio c’erano tanti tipografi ma nessun editore disposto a puntare sulla qualità, nel mio piccolo ho deciso di creare questo progetto da zero impegnandomi su argomenti per me fondamentali. La nostra sede si trova in via Dante Alighieri nel luogo dove è sorto l’ospedale Santa Maria, prima che venisse ricostruito dove tutti oggi sappiamo».
Cosa significa per lei l’Appennino reggiano? È un interesse personale che ha avuto modo di svilupparsi anche a livello professionale?
«Le città hanno ritmi diversi, sono molto veloci e per questo hanno continue evoluzioni, la montagna è uno scrigno di conoscenza che probabilmente in altre zone si può percepire meno, ha tempistiche completamente diverse ed è fondamentale per raccontare la storia reggiana».
A proposito di questo, a suo parere le culture locali nella loro diversità sono state influenzate dalla loro area geografica?
«Indubbiamente la montagna è un luogo a sé e la sua gente è di natura più chiusa, ma non in un senso negativo del termine. Le differenze sono moltissime, tra le quali il tipo di popolazione che ha abitato quelle zone, nei secoli sono stati tendenzialmente i liguri a spostarsi verso la montagna, mentre dalla zona della bassa provenivano i romani. Si pensi inoltre che molti paesi rimanevano isolati per mesi quando le strade ancora non erano praticabili dalle carrozze, dunque un mondo tendenzialmente più chiuso. I sostanziali cambiamenti si sono visti dall’ultimo decennio che ha preceduto l’unificazione d’Italia grazie a diverse invenzioni e l’avvento dell’industrializzazione».
Per quanto riguarda l’impatto della mano dell’uomo sulla nostra montagna, secondo lei c’è consapevolezza sul tema della tutela del nostro patrimonio naturale?
«I problemi ambientali di oggi sono percepiti come qualcosa di lontano, si pensa alle isole di plastica negli oceani, la foresta amazzonica che brucia, lo scioglimento dei ghiacciai… penso che per comprendere veramente questi problemi ambientali serva restringere il campo e valutare le nostre cattive abitudini quotidiane. Non c’è un male assoluto, nella nostra città abbiamo un problema enorme con la gestione della raccolta differenziata ad esempio. Lo sbaglio è quello di dire che la natura non va toccata, penso che il turismo abbia bisogno di infrastrutture, una rete che consenta a chi usufruisce del territorio di avere dei punti di appoggio, strutture, vita sociale ben gestita! Le nostre ricchezze non devono limitarsi a essere un soprammobile da guardare e non toccare, Reggio ha un enorme potenziale a livello culturale e naturale, serve una amministrazione consapevole e mirata per valorizzare queste risorse».
Dunque, servirebbe più impegno da parte delle diverse amministrazioni comunali?
«Non mi interessa focalizzarmi sul colore politico, penso che servano dei sindaci che amino e conoscano il loro territorio. E il singolo deve prendersi le sue responsabilità, non è sempre colpa degli altri, dobbiamo essere noi i primi a impegnarci, quando vedo una bottiglia per terra la raccolgo e semplicemente la butto. Se ognuno di noi sui sentieri facesse questo o ci mettesse la faccia quando qualcosa non va, qualcosa inizierebbe a muoversi seriamente. I danni ambientali sono derivati da danno sociali ed economici, è come una slavina che si espande sempre di più travolgendo tutti, ma all’inizio c’è sempre l’ambiente».
Al centro delle sue pubblicazioni rimangono sempre tematiche come l’ambiente, il viaggio e i luoghi, pensa che la natura abbia una forza emotiva in noi?
«L’uomo è un mammifero, il Covid ci ha fatto capire che non siamo degli dèi, abbiamo bisogno di luoghi in cui andare ma non dei sacrari, è importante farne parte in modo equilibrato, quando penso alla montagna penso anche a diversi business: è vero che non siamo Roma o Firenze, ma non per questo mancano le potenzialità, credo che aldilà delle capacità degli amministratori del territorio debba coesistere un senso di responsabilità e il cambio di mentalità. La natura e il paesaggio devono diventare una risorsa da proteggere e da sfruttare ma senza abusarne come il consumismo fa. La montagna ha una potenzialità gigantesca, i nuovi insediamenti non devono obbedire alle mode o al finanziamento di turno, manca una strategia sull’ambiente vista come risorsa».
Quando si dice che bisogna salvare la natura forse vogliamo salvare solo noi stessi?
«La vediamo come qualcosa di distaccato da noi. Questo perché crediamo di essere il punto finale della catena evolutiva, e questa è una balla clamorosa. Noi siamo consumatori, contano molto di più i produttori, ovvero le piante, e i decompositori ovvero ciò che mangia i nostri rifiuti. Dobbiamo capire che è distante da noi ma bensì parte di noi, la montagna in primis ma anche le città.