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Il caso

Detenuto morto in cella alla Pulce: «Non crediamo si sia suicidato»

Ambra Prati
Detenuto morto in cella alla Pulce: «Non crediamo si sia suicidato»

I familiari del 54enne: «Il giorno prima era tranquillissimo, vogliamo la verità»

03 settembre 2024
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Reggio Emilia «Noi familiari non crediamo all’ipotesi del suicidio. La moglie ha parlato con lui in videochiamata il giorno prima che lo trovassero morto in cella ed era tranquillissimo. Vogliamo la verità». A parlare è Tarik Bassiri, 44 anni, cognato di Abdeljalil Saddiki, il cittadino italiano (aveva acquisito la cittadinanza in virtù di un primo matrimonio) di origini marocchine rinvenuto dalla polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia il 29 agosto alle 22.40 impiccato alla grata delle sbarre, tramite una maglietta arrotolata.



Un decesso classificato inizialmente come suicidio (il settimo in regione e il 67esimo in Italia dall’inizio dell’anno), ma che lo stesso Garante regionale dei detenuti Roberto Cavalieri – che si è subito recato nell’istituto penitenziario di via Settembrini per svolgere un’ispezione – ha definito anomalo e privo delle caratteristiche ricorrenti della triste conta di chi decide di togliersi la vita dietro le sbarre. Saddiki – aveva scontato gran parte della condanna a 4 anni e 2 mesi per due furti di auto fotocopia avvenuti a Sant’Ilario e a Parma e stava trovando un domicilio per gli imminenti arresti domiciliari – era ritenuto un detenuto modello: in carcere aveva conseguito la licenza media, aveva svolto un corso professionale lavorando alla Pulce come cuoco e nulla faceva presagire un gesto estremo. Nulla, a parte un diverbio avvenuto il giorno stesso del decesso con il compagno di cella che aveva indotto gli agenti a separare i due: Saddiki era in cella da solo da poche ore, quando è stato trovato senza vita. Anche secondo la Procura c’è qualcosa che non torna: tanto che il pm Maria Rita Pantani, dopo il sopralluogo sul posto, ha disposto l’autopsia – che si svolgerà domani all’Istituto di medicina legale di Modena, il perito nominato dalla Procura è il dottor Michele Carpinteri – e ha affidato gli approfondimenti al Nic di Bologna (nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, lo stesso che si è occupato delle presunte torture in carcere).

Mentre i figli avuti con la prima moglie del 54enne, Fatima e Alex, preferiscono non commentare in questa fase, il cognato parla a nome della moglie Souad che mastica poco l’italiano. «La moglie ha parlato con lui mercoledì a mezzogiorno, in videochiamata – racconta il fratello della moglie – Era tranquillo, leggeva i quotidiani locali come sempre, faceva progetti per quando sarebbe uscito: aveva imparato un lavoro e avrebbe guadagnato anche per mandare soldi all’anziana madre in Marocco. Diceva che nell’ultimo periodo di detenzione era cambiato, voleva sistemare la sua vita e giurava di aver chiuso con gli sbagli».

L’indomani la doccia fredda. «La moglie non è stata neppure avvisata. Abbiamo saputo dell’accaduto da un nostro connazionale e, quando abbiamo chiamato in carcere, hanno confermato. Inspiegabile, impossibile. Una persona che vuole farla finita non si comporta così». Fin qui siamo nell’ambito delle impressioni. Ma il cognato addita gli aspetti che non tornano. Anzitutto l’orario. «Di solito i suicidi avvengono di notte, quando si è indisturbati: invece alle 22.40 erano tutti svegli. Soprattutto Abdeljalil era un omone alto e dalla corporatura robusta. Come può un uomo alto 1.90 impiccarsi a un’altezza inferiore (1.70), con una maglietta che non reggerebbe il suo peso?». I congiunti, tutelati dall’avvocato Giacomo Fornaciari, cercano un perché. «In carcere Saddiki non aveva nemici: mai una discussione né con le guardie né con altri detenuti, ad eccezione della lite di quel giorno. Strana coincidenza. Non sappiamo cosa possa essere successo: forse le telecamere potranno essere utili. Speriamo che la Procura vada fino in fondo e che l’indagine faccia chiarezza». l

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