Confermato il dissequestro dei beni della famiglia Iaquinta
La Cassazione boccia il ricorso della procura generale della Corte d’appello
Reggio Emilia Anche la Cassazione ha confermato che la provenienza dei beni della famiglia Iaquinta sono di provenienza lecita.
La Suprema Corte ha depositato le motivazioni della sentenza con cui dichiara inammissibile il ricorso della Procura generale della Corte d’appello di Bologna nell’ambito del procedimento contro Vincenzo Iaquinta, ex attaccante, partito da Reggiolo, approdato all’Udinese e alla Juventus e campione del mondo nel 2006, il padre Giuseppe e la sorella Adele.
Al centro della decisione c’era la confisca di 10 milioni di euro da parte della Direzione Distrettuale antimafia: il provvedimento era stato revocato dal Tribunale delle misure di prevenzione di Bologna e i beni vennero restituiti, nell’ambito del procedimento finalizzato all’applicazione della sorveglianza speciale nei confronti di Giuseppe Iaquinta, condannato a 13 anni per associazione mafiosa. Vincenzo Iaquinta ha sempre difeso il genitore, gridando la sua innocenza e respingendo ogni legame con la 'ndrangheta.
Entrando nelle pieghe della sentenza, le motivazioni della Suprema Corte argomentano in modo dettagliato come l’ex attaccante potesse permettersi di accreditare ai genitori anche 3 milioni di euro. La Cassazione ripercorre come, dalla perizia disposta dal tribunale, Vincenzo Iaquinta «avesse introiti mensili di 250mila euro, per un totale di 20.453.426,85 euro, dal 2004 al 2013, oltre alle cedole maturate sulle obbligazioni dal 2009 al 2015 per 902mila euro».
Questi introiti sono stati versati sia a favore della Iaquinta Costruzioni, sia nell’ambito di investimenti finanziari per i genitori.
La Cassazione evidenzia, inoltre, come la «Procura appellante aveva criticato il decreto di primo grado» perché «nella valutazione dell’incidenza dei finanziamenti del figlio ai genitori e alla società, non dovesse avere rilevanza l’importo corrispondente alla perdita di 3 milioni 102mila euro in relazione a titoli Mps, acquisiti nel 2016, con denaro erogato da Vincenzo ai genitori a partire dal 2014 e nel 2020, venduti con ricavo ben inferiore di 24.417 euro». La Corte d’appello, tuttavia, aveva osservato che «l’investimento e la medesima perdita intervennero in un arco temporale successivo all’acquisto dei beni dei quali si chiedeva la confisca, cosicché l’incidenza di tale importo non sussisteva».
In sostanza, secondo la Corte d’appello - si legge nelle motivazioni della Cassazione - i finanziamenti da parte di Vincenzo Iaquinta ai genitori «rendevano lecite le risorse utilizzate per gli acquisti e gli investimenti, che quindi risultavano giustificati».
«Abbiamo dimostrato che i soldi provenivano da me, da fonte lecita come è stato detto nella sentenza», aveva rimarcato l’ex campione nell’agosto del 2023, dopo che la sezione specializzata in misure di prevenzione del tribunale di Bologna aveva rigettato la richiesta di confisca presentata dalla Dda - la Direzione distrettuale antimafia - relativamente ai beni di Giuseppe, Vincenzo e Adele Iaquinta.