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L'intervista

Zucchero: «Mi sento più reggiano che italiano. Da Roma una certa cultura viene messa da parte a vantaggio di un’altra»

Chiara Cabassa
Zucchero: «Mi sento più reggiano che italiano. Da Roma una certa cultura viene messa da parte a vantaggio di un’altra»

Così Adelmo Fornaciari in occasione dell’uscita del suo ultimo album Discover II

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Reggio Emilia La passione per “quella musica”? Tutto grazie a un calcinculo. L’amicizia? Una questione di chimica. La cultura? Sta prendendo una brutta piega. Il blues? Il filo rosso di una vita, la sua. Il dialetto reggiano? Un’ancora di salvezza. C’è anche tutto questo in “Discover II”, l’ultimo album di Zucchero che esce oggi. Il bluesman di Roncocesi rivisita i brani iconici del repertorio musicale italiano e internazionale che più ha amato, reinterpretandoli con il suo inconfondibile stile.

Perché, dopo Discover I, un nuovo album di rivisitazioni?

«È che c’era rimasto qualcosa in gola. Così come quando dici “però avrei potuto fare anche quella là... perché non l’ho messa?”. Allora un motivo è sicuramente questo, non lasciare fuori canzoni a cui sono affezionato. Poi per incidere un disco d’inediti devi partire da zero, musica e parole, devi stare chiuso in studio come un francescano quasi per un anno, invece poiché ultimamente siamo sempre in tour, il tempo è poco. Visto che la materia prima c’era già, era bella e mi piaceva, si trattava di rifare gli arrangiamenti, di trovare dei suoni nuovi, di farla mia. Un lavoro piacevole e sfidante perché ci sarà sempre qualcuno che potrà dire... però mi piaceva di più l’originale. Ma è il rischio che si corre quando si vanno a toccare delle icone».

Come avviene la scrematura delle canzoni?

«Ne ho provinate una quarantina. Poi o non trovi la tonalità giusta o non arriva l’arrangiamento, non trovi quel guizzo, allora scarti i brani che non hanno questo carattere ben definito, per cui le avrei potute scrivere io o le avrei potute rifare a modo mio».

Un esempio?

«Per esempio Sailing, la ascoltavo negli anni Settanta e Ottanta quando suonavo nelle balere con il mio gruppo. Nel momento in cui i dj mettevano quella canzone io sbrodolavo, solo a sentire l’arpeggio iniziale. Però mi sono sempre chiesto perché così corpulento la fa con quella vocina, io la immaginavo fatta da un Ray Charles, con una voce più grezza, più ruvida. Ecco, Sailing ho sempre desiderato farla a modo io. Ma anche Acquarello di Toquinho. Ha una melodia bellissima, un testo che sembra una filastrocca ma con una malinconia tutta brasiliana, la saudade... il sole giallo che scolorirà».

La saudade come il blues, che in questo album riaffiora anche quando si affrontano brani pop, melodici o rock.

«Ma il blues c’è sempre, perché il blues è il filo che ha condotto tutta la mia vita sia esistenziale, fin dall’inizio con l’abbandono della mia Roncocesi, che artistica. Purtroppo o nel bene, perché mi ha portato a scrivere canzoni che altrimenti non sarebbero uscite. Anche se gioco tra il sacro e il profano, in fondo c’è sempre quella malinconia».

In Discover II c’è un brano che svetta sugli altri?

«Ero indeciso se mettere With Or Without You e Knockin’ on Heaven’s Door. Quando vai a toccare il mito devi volare basso, perché è molto facile cadere. Ma alla fine, provinando Knockin’ on Heaven’s Door, ho immaginato un film western con la colonna sonora di Morricone, parte con un suono dark poi senti la campana a morte, il cambio di tonalità perché altrimenti era sempre uguale. Così ho capito che doveva entrare nell’album».

Bryan Adams, Sting, Brian May, Paul Young, Bono, B.B. King... Le collaborazioni internazionali sono infinite e di altissimo livello. L’appeal di Zucchero non si discute.

«Un po’ mi aiuta la musica che faccio perché ha sonorità e radici italiane e mediterranee ma attinge molto dal blues, dal r&b, dal gospel, quindi è familiare per americani e inglesi. Però quello che loro non hanno è l’improvvisa apertura melodica tipicamente mediterranea. Loro partono con un tema che è sempre uguale, quasi ipnotico, e io invece a un certo punto li frego perché apro all’italiana e, soprattutto, canto in italiano. I musicisti, quelli veri, sono affascinati dalla lingua italiana e dal canto in italiano. Il primo fu Miles Davis che dopo avere ascoltato Dune Mosse mi disse: “I love your voice... dovrò piangere quando suonerò questa canzone. Però tu continua a cantare in italiano”. E io anche all’estero, dall’America al Canada all’Australia, canto quasi sempre in italiano perché la lingua è un suono. È la musica che ti deve dare le emozioni mescolate al suono della voce che in questo caso è in italiano. Io ci credo. Che poi, scusa, quando noi ascoltavamo i Beatles e i Rolling Stones, forse capivamo le parole? No, eppure ti entravano dentro».

Tornando alle collaborazioni di razza, molto ha a che fare anche con l’amicizia.

«Nel docufilm uscito l’anno scorso Bono, Sting, Bocelli... mi ritengono una persona saggia, cosa che non sono sicuro di essere. Ma anche una persona dalle radici profonde, con una voce molto emozionante e sai, a volte esagerano, dicono di me cose bellissime che io onestamente non sapevo di avere. Alla fine tutti parlano di Zucchero come di un amico di cui ti puoi fidare, di una persona che non ti tradirà mai. Penso sia merito delle radici e una questione di chimica».

Con chi è scattata ultimamente?

«Avevo visto Russell Crowe durante un mio tour in Australia, poi l'ho rivisto al trentennale di Bocelli a Lajatico e mi ha invitato ad un suo concerto a La Spezia. Io ero un suo fan ma non lo conoscevo, eppure abbiamo deciso subito che dovevamo fare qualcosa insieme. Poi siamo andati a bere birre Guinness fino alle 4 di mattina. Quando incontro certi artisti, scatta qualcosa di genuino. Nessuno, né io né loro, ha mai collaborato perché costretto. Per esempio con Luciano, lui era già planetario quando l’ho conosciuto. Abbiamo iniziato a collaborare e sono arrivate le tredici edizioni di Pavarotti & Friends. Lui mi telefonava e mi diceva “dai ciccio, tu chiami quella persona e io cerco quell’altra”. Ci confrontavamo continuamente e ci scambiavamo consigli».

Gli amici veri chi sono?

«Di amici veri ne bastano pochi. Io conservo ancora alcuni amici delle elementari di Roncocesi, almeno tre quattro volte all’anno ci incontriamo, andiamo a pescare, a fare della mangiate, parliamo in dialetto e in quei momenti mi sembra di essere rimasto lì. Loro mi capiscono al volo anche se non hanno vissuto in prima persona la mia carriera. Mi vedono come Delmo, neanche Adelmo».

La prima canzone che ti ricordi di avere ascoltato?

«È stato grazie al calcinculo che a Roncocesi arrivava per la fiera di San Biagio, il 3 settembre. Non c’era niente, due bancarelle e il calcinculo. Io, che abitavo di fronte alla chiesa, sentivo la musica e uscivo. Per la prima volta ho sentito alcune canzoni straniere, i Rolling Stones, i Beatles, Otis Redding, e ho capito che era quella la musica che volevo fare. Grazie a un calcinculo. Sai che potrebbe essere il titolo di una canzone?»

A proposito di radici, Vasco su Fb ha recentemente ringraziato il padre per avergli trasmesso i valori della Resistenza. È un post condivisibile?

«Ringrazio mia mamma mio padre mio zio che sono venuti anche loro da quella esperienza. Mio zio è tornato a casa dalla Germania con una scheggia nel cuore. Mia nonna Diamante mi parlava della guerra e dei partigiani. Sono cresciuto dentro quella ideologia. Quindi sono i miei valori, le mie radici, poi che oggi non ci sia più una vera identità mi dispiace, sono un po’ deluso, ma i miei valori non cambiano».

Vasco parlando di nazifascismo ha anche detto “ora sono tornati come lupi travestiti da agnelli”.

«Se è per questo ho visto anche tanti agnelli diventati lupi. Non lo so. Forse semplicemente sono un diesel e ancora non sono arrivato a pensarlo fino in fondo. Sento invece qualcosa che mi lascia perplesso sulla cultura. Ma non perché sono già cambiati due ministri. Ho l’impressione che un certo tipo di cultura sia lasciata da parte a vantaggio di un’altra. Voglio dire, hanno scoperto una tibia di un legionario romano a Pompei, di un legionario non di Giulio Cesare, e danno la notizia in tre reti unificate, e poi tolgono i fondi al cinema all’arte alla poesia alla musica, questo è un segnalino che sto sentendo e che mi rompe molto. L’altro giorno riflettevo, proprio perché sei di Reggio te lo dico, e prenderò anche degli insulti... ma sai che io non mi sento tanto italiano? Io mi sento più reggiano. Non perché non amo l’Italia, ma quando sento discorsi strani che vengono soprattutto da Roma, mi scappa un’imprecazione... che però la prenderebbero male. Solo i reggiani possono capire».

Cioè, noi non siamo politically correct?

«Sai, sono battute da guascone, da compagnòn. Come quando dici “ch'at vegna un cancher”. Se ti rivolgi così a chiunque non sia reggiano, beh si offende, per noi è come riconoscerci».

Considerato il clima da “cancher & blues” non osiamo dire a Zucchero che, proprio mentre stiamo parlando, è in corso l’abbattimento del “suo” ponte, quello di Roncocesi. Lo abbiamo invece informato che in via Crispi stanno resistendo le luminarie con le sue canzoni. «Ancora? Ma i reggiani non ne potranno più, quando passano di lì penseranno... che dû marón!». Da Delmo è tutto. E buon ascolto. 

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